Festa della Donna: #1 – Le Red Hot Mamas

Colgo l’occasione dell’imminente Festa della Donna (non c’è solo l’emergenza del “vairus” di cui parlare…), per proporre una breve riflessione storica sul rapporto fra le cantanti e il Blues: storia di una passione sempre viva, ma che solo occasionalmente è riuscita a esplodere. Storia interessante, perché intreccia giocoforza un’altra questione, egualmente importante: quella delle barriere razziali.

Blues al femminile

Quando, dopo la Guerra Civile, si stabilizzano i presupposti per la nascita del blues, nella società nera le differenze fra i sessi sono già ben delineate, sia fra le mura domestiche che sulle assi dei palcoscenici. Le donne, rispetto ai maschi, rivestono da sempre un ruolo più sussidiario, subordinato, che impedisce il medesimo tipo di mobilità: la maggior parte, anche se costrette a emigrare, cercano un lavoro stabile e dignitoso, come la governante, mentre pochissime si danno allo spettacolo. La musica è per certo parte della loro vita: anzi, è proprio grazie ai canti solitari sulla veranda, o durante i lavori di casa, che le canzoni, le emozioni, lo “spirito del blues” si trasmettono nelle campagne, tramandandosi di madre in figlio, e di famiglia in famiglia. Ma la “professione” è un tabù.

Le cantanti nere professioniste di blues di cui, a fine Ottocento, si abbia qualche traccia attendibile o memoria sicura si contano sulle dita di una mano. Ophelia Simpson, in arte Black Alfalfa, sarebbe una di queste: tuttofare al soldo del Medicine Show del Dr. Parker, accompagna le vendite del suo miracoloso intruglio con un canto esacerbato, lacerante, “blues”. Nel 1898, a Louisville, incarcerata per il presunto omicidio del marito, scrive “Black Alfalfa Jail-house Shouting Blues”, tra i primissimi esempi di shout e di stanza blues strutturati sulla forma strofica AAB. Ma, al di là di questo, null’altro resta: né una foto, né traccia del suo destino… E, per esser sinceri, nemmeno prove della sua reale esistenza! Tutto, infatti, si basa sulla testimonianza del critico e storico John Jacob Niles: una cronaca non certo inoppugnabile, visto che nel 1898, quando avrebbe ascoltato la Simpson, Niles aveva solo 6 anni. E, altra nota stonata, la forma strofica, difficile da immaginare in forma compiuta nel blues di fine Ottocento.

Più documentata e sicura, invece, è l’esistenza di “Mamie” Desdunes (1879-1911): una povera musicista creola vissuta a New Orleans a cavallo dei due secoli. Nonostante la mano destra sia monca delle due dita centrali, è in grado di cantare e suonare il blues con una tale intensità e forza da restar viva nelle memorie di due grandi, come Buddy Bolden e Jelly Roll Morton, che a distanza di anni parlano delle sue esibizioni nei bordelli di Storyville con nostalgia e rispetto.

Solo a inizio Novecento, grazie alla crescente moda dei carrozzoni Minstrel e vaudeville, le donne iniziano a guardare allo spettacolo musicale come un modo – dignitoso, accettato e al tempo stesso sicuro – di sbarcare il lunario. Ed ecco le (bianche) “Red hot mamas”… Robuste sciantose dal piglio verace, ornate di boa di struzzo, gioielli sfavillanti e patacche senza valore, sempre in bilico fra vocalità possenti e caloroso magnetismo, fra umori neri, burlesque bianco e scintillante presenza scenica.

Le Red hot mamas percorrono gli anni Dieci come un tornado di colori e paillettes. I club esclusivi, le sciatte ribalte di periferia, i teatrini di quartiere: tutti i luoghi dello spettacolo popolare sono travolti da queste vivaci ed entusiaste cantanti. Il gruppo, va da sé, è molto eterogeno: ma, che si tratti di ambiziose dilettanti, starnazzanti starlette, logore reduci blackface, o finissime professioniste, gli imperativi sono sempre gli stessi… Divertire il pubblico, stuzzicarne i sensi, e abbagliarlo con la propria sfrontatezza: ovviamente, senza l’ausilio di microfoni, ma con la potenza e la forza della sola voce.

Dai palchi, all’esordio in sala di incisione, il passo è breve: siamo però ancora negli anni dei cilindri Edison e della scarsa resa sonora, e le registrazioni sopravvissute, purtroppo, non ci possono regalare che una pallida testimonianza della loro arte. E, proprio perché ancora a inizio secolo, le scritturate devono essere rigorosamente di pelle chiara: per le nere, le incisioni sono un miraggio.

Sophie Tucker

Sophie Tucker (1886-1966), americana di origine ebraico-russo-polacca, è la matriarca – anche se non la prima in ordine di tempo – di questa allegra compagnia: terragna, ruvida e giunonica, riesce ad affrontare i tempi sincopati in modo disinvolto, grazie a un inimitabile stile a cavallo fra il cantato e il parlato. Il suo debutto è molto curioso, e sintomatico dello spirito dei tempi: nel 1908, dopo anni di praticantato blackface nel circuito TOBA, una sera si accorge di aver smarrito la valigia dei trucchi, andata smarrita. Poco male: si presenta sul palco, e dichiara: “Come potete vedere, sono una bianca. Bene, vi dirò una cosa: non sono del Sud. Sono un’ebrea, e ho imparato l’accento del Sud facendo il teatro blackface per due anni. E ora, boss, suona la mia canzone”.

Il debutto discografico della Tucker avviene fra il 1910 e l’11, con una decina di cilindri Edison: la prima incisione si chiama “That Lovin’ Rag”, ma il colpo che cambia la sua carriera è “Some of These Days” (1911), brano di Shelton Brooks che diventa uno straordinario hit, e la canzone-simbolo non solo di Sophie ma dell’intero decennio. Il suo picco artistico è racchiuso fra il 1911 e il ’18, anni in cui sforna hit come “Don’t Put a Tax On the Beautiful Girls”, “Please Don’t Take My Harem Away” e “Everybody Shimmies Now”. Nel 1922 passa alla Okeh, con cui incide il malizioso “High Brown Blues”, e il 78 giri “My Yiddische Mama” (1928): un curioso esempio di disco bilingue, in inglese su un lato, e in yiddish sull’altro.

Marion Harris

Le Red hot mamas sono, letteralmente, una marea: fra le migliori allieve e prosecutrici della Tucker, e fra le poche ad avere un percorso commerciale di rilievo, citiamo Marion Harris e Lee Morse… Cantanti che arricchiscono la tavolozza espressiva del canto femminile con pieghe blue e languide colorazioni negre, portando la voce alla soglia della lacerazione, e che accompagnano la vecchia coon song alle porte del blues.

Mary Ellen Harrison, in arte Marion Harris (1896-1944), dopo un inizio nei musical di New York, nel 1917 è messa sotto contratto dalla Victor Records: le sue canzoni (titoli come “After You’ve Gone”, “A Good Man Is Hard to Find” e il suo successo più grande, “I Ain’t Got Nobody“, resa famosa da Louis Prima), si fanno notare per un timbro di voce scuro, da donna del Sud, capace di ingannare gli ignari ascoltatori da salotto.

Lee Morse

Nata come Lena Corinne Taylor, Lee Morse (1897-1954) parrebbe tutto l’opposto del prototipo della Red Hot Mama: uno scricciolo di donna alta appena 1 metro e 50, e con soli 45 chili di peso. Ma la natura, per un curioso contrappasso, le ha regalato una voce potente, profonda, con un range impressionante, e impreziosita da uno jodeling per l’epoca molto originale. L’esordio discografico avviene nel 1924, con la francese Pathé Records: i 78 giri più noti – fra cui non pochi di sua penna – sono “Telling Eyes”, “Those Daisy Days”, “An Old-fashioned Romance”, “Deep wide ocean blues” e “Daddy’s girl”.

Rassicuranti come una massaia e stuzzicanti come una maitresse, le le Red Hot Mamas sono la manifestazione del lento, faticoso superamento di un tabù, e dell’affioramento di un sommerso sociale e culturale: il “nero”, che agita il subconscio americano come un pensiero peccaminoso, trova con queste artiste un modo per proporsi, pur se “in maschera”. E, proprio come avvenuto con le coon song, il gioco non dura che una manciata d’anni. Giusto il tempo per abituarsi, e all’inizio degli anni Venti il mercato e il pubblico sono pronti per la “versione originale”: le sorelle nere, le grandi dive del Classic Blues… Le prime star del nascente stardom afroamericano, icone viventi di successo, emancipazione e popolarità. Ne parleremo in un’altra occasione: magari alla prossima Festa della Donna.

E, ovviamente, auguri a tutte le donne: siete come le blue note della scala blues… Preziose, emozionanti, e ineffabili.

 

Articolo tratto da “Il Grande Viaggio” – Vol. 1 – Parte Prima

…Coming soon!

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