Sessant’anni possono essere pochi, tantissimi, o niente… Per una persona, sono spesso una buona fetta di vita; per un ragazzo d’oggi sono un tempo che equivale, più o meno, all’età della pietra; e per un buon disco, a volte, un nonnulla.
Sessant’anni fa, proprio oggi, la Parlophone – succursale della EMI – metteva sul mercato il primo album dei Beatles: intitolato “Please Please Me“, seguiva il singolo d’esordio “Love Me Do” (pubblicato a Ottobre ’62) e ripeteva il titolo dell’omonimo 45 giri uscito due mesi prima. Le aspettative erano alte: il singolo “Please Please Me”, come pronosticato dal producer George Martin, era arrivato al primo posto, e negli uffici di Londra si capiva che qualcosa bolliva in pentola. E così fu: dando il via a una carriera di straordinario successo e, ancor più importante, a una valanga destinata a travolgere e cambiare per sempre la musica pop. Continua a leggere “The Beatles – “Please Please Me””→
Questa puntata della serie “Io non so parlar di musica” parte da una riflessione: che passare dal sublime al banale, a volte, è questione di un attimo. Ne ho avuto la prova qualche settimana fa: dalla tv, in sottofondo, sento la voce della Gerini che fa la pubblicità a una pasta; e, nel farlo, usa, cambiando parole e tono, una vecchia canzone di Domenico Modugno, “Vecchio frack“.
Una delle più belle canzoni italiane di sempre, per quanto mi riguarda: malinconica, impressionistica, delicata e crudele, capace di emozionarmi come poche altre. Ispirata al sospetto suicidio di Raimondo Lanza di Trabia, era un brano amato particolarmente da mio padre: e, anche se capisco benissimo che “business is business”, sentirlo appiccicato a una pastasciutta, ecco, un po’ di fastidio me l’ha dato. Continua a leggere “Io non so parlar di musica #16”→
Buongiorno a tutti. Raramente come questa volta, il titolo della rubrica “Io non so parlare di musica” si è sposato così tanto con lo spirito e il contenuto della canzone proposta. Sì perché la parte forte di “Quelli che benpensano” è, come tanti rap, il testo: non che la musica non ci sia, anzi il campionamento del riff principale, il refrain e la tessitura sonora sono di primissimo ordine… Ma è il testo a far la parte del leone.
Ed è un testo fenomenale, incazzato ma non volgare, sprezzante ma anche consapevole, acuto e intelligente: sull’onda di Gaber, di Guccini e di Bennato, il nume tutelare del Rap e dell’Hip Hop (in) italianoFrankie hi-nrg mc, al secolo Francesco Di Gesù, dipinge uno dei ritratti più ficcanti del perbenismo borghese e del consumo compulsivo che abbia mai letto o ascoltato. La prosa di Frankie ribolle di sdegno, metafore fulminanti, arguzie e sarcasmo: ma, anche, di fiera solitudine e alterità, e consapevolezza della nostra fallacità. Un vero colpo di classe e di genio, questo pezzo: da ascoltare, meditare e vivere… Sia, certo, quando ci sentiamo vittime del perbenismo, della faciloneria e di chi “sta sempre con la ragione e mai col torto”; ma, anche e soprattutto, quando senza rendercene conto – e succede, succede… – i bastardi siamo noi.
E lo dice subito, Frankie, nella prima strofa: “Sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi”
Impossibile, questa volta, non postare anche il testo: mi fa venire i brividi ogni volta.
Buon ascolto
Frankie hi-nrg mc – “Quelli che benpensano“
Sono intorno a noi, in mezzo a noi In molti casi siamo noi a far promesse Senza mantenerle mai se non per calcolo Il fine è solo l’utile, il mezzo ogni possibile La posta in gioco è massima, l’imperativo è vincere E non far partecipare nessun altro Nella logica del gioco la sola regola è esser scaltro Niente scrupoli o rispetto verso i propri simili Perché gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili Sono tanti, arroganti coi più deboli, zerbini coi potenti Sono replicanti, sono tutti identici, guardali Stanno dietro a maschere e non li puoi distinguere Come lucertole s’arrampicano, e se poi perdon la coda la ricomprano Fanno quel che vogliono si sappia in giro fanno Spendono, spandono e sono quel che hanno
Sono intorno a me, ma non parlano con me Sono come me, ma si sentono meglio Sono intorno a me, ma non parlano con me Sono come me, ma si sentono meglio
E come le supposte abitano in blisters full-optional Con cani oltre i 120 decibels e nani manco fosse Disneyland Vivon col timore di poter sembrare poveri Quel che hanno ostentano, tutto il resto invidiano Poi lo comprano, in costante escalation col vicino costruiscono Parton dal pratino e vanno fino in cielo Han più parabole sul tetto che San Marco nel Vangelo Sono quelli che di sabato lavano automobili Che alla sera sfrecciano tra l’asfalto e i pargoli Medi come i ceti cui appartengono Terra-terra come i missili cui assomigliano Tiratissimi, s’infarinano S’alcolizzano e poi s’impastano su un albero – boom! Nasi bianchi come Fruit of the Loom Che diventano più rossi d’un livello di Doom
Sono intorno a me, ma non parlano con me Sono come me, ma si sentono meglio Sono intorno a me, ma non parlano con me Sono come me, ma si sentono meglio
Ognun per sé, Dio per sé Mani che si stringono tra i banchi delle chiese alla domenica Mani ipocrite, mani che fan cose che non si raccontano Altrimenti le altre mani chissà cosa pensano, si scandalizzano Mani che poi firman petizioni per lo sgombero Mani lisce come olio di ricino, mani che brandiscon manganelli Che farciscono gioielli, che si alzano alle spalle dei fratelli Quelli che la notte non si può girare più Quelli che vanno a mignotte mentre i figli guardan la tv Che fanno i boss, che compran Class
Che son sofisticati da chiamare i NAS, incubi di plastica Che vorrebbero dar fuoco ad ogni zingara Ma l’unica che accendono è quella che dà loro l’elemosina ogni sera Quando mi nascondo sulla faccia oscura della loro luna nera
Sono intorno a me, ma non parlano con me Sono come me, ma si sentono meglio Sono intorno a me, ma non parlano con me Sono come me, ma si sentono meglio…
Della serie: che mi sono perso! Questo, d’altronde, succede quando per anni – un po’ per pigrizia, un po’ per supponenza, un po’ per ottusità – tutte le volte che incocci in un disco che tutti – ma proprio tutti! – dicono un capolavoro, ti giri dall’altra parte. Scelta legittima, altroché: ma poi lo compri, lo ascolti una volta – e già inizi a darti, un po’ di nascosto, del cretino…; lo ascolti una seconda volta – e alterni lacrime, sorrisi, mosse da ballo e risate; e alla terza non riesci ad addormentarti, tanto quelle canzoni di battono in testa, una dietro l’altra.
Per venire al caso di specie: da tanti, tanti anni, sapevo benissimo che “Songs in the Key of Life” era considerato un must assoluto; ma, appunto, mi ero sempre scansato, davanti all’acquisto. E dire che di Stevie Wonder avevo ottime memorie, seppur parziali: la sua “Master Blaster” era stata una delle prime cose ascoltate alla radio, al tempo della sua uscita, e ne sapevo pure tutto il testo… Ma niente: faceva parte di quella categoria (descritta nel post “Di vuoti e di pieni“) destinata a rimanere il classico “buco” nella collezione. Poi, complice la chiusura imminente di un negozio storico di Asti, e la svendita di parecchi pezzi, è arrivato l’acquisto: e la conseguente goduria.
Sì, è davvero un capolavoro, senza se e senza ma. D’altronde, da uno che ha il soprannome di Stefano Meraviglia, che a 4 anni suona già il piano, che a 13 conquista le vette delle classifiche, che scrive, canta, suona di tutto (e, l’armonica, da dio!), e che nel 1976 – anno di uscita di questo disco, e quindi a 26 anni – ha già inciso 18 album, che ti vuoi aspettare di meno? Continua a leggere “Stevie Wonder – “Songs in the Key of Life””→
Ciao a tutti. Colgo l’occasione offerta da questo post – il quattordicesimo della serie “Io non so parlar di musica” – per svelarvi un piccolo segreto: e, cioè, le mie “canzoni della buonanotte“. Si tratta di canzoni che canticchio mentalmente quando sono un po’ nervoso, e tardo magari a prendere sonno: un repertorio di 5-6 brani, che ha preso forma nel corso degli anni a forza di sbadigli e occhi aperti nel buio, e che su me ha un effetto calmante.
Bene, una di queste canzoni è un pezzo del 1982 degli Alan Parsons Project: “Eye in the Sky“. Mi piace la melodia, il mood, l’arrangiamento discreto, l’incedere e la voce, serena e morbida, di Eric Woolfson: e dire che l’ispirazione del brano è invece tutt’altro che rassicurante… Lo spunto per il pezzo nasce infatti dai numerosi sistemi di sicurezza e telecamere nascoste presenti nei casinò, in cui Woolfson amava trascorrere del tempo. L’Occhio nel Cielo del titolo richiama proprio il “Grande Fratello” che tutto vede e osserva: quello del romanzo “1984” di Orwell, insomma. E, forse, quello che ormai ci scruta continuamente, grazie agli “acconsento” che clicchiamo febbrilmente su siti, contratti e piattaforme. Continua a leggere “Io non so parlar di musica #14”→
Ciao a tutti, e benvenuti a un nuovo e breve episodio della rubrica “Io non so parlar di musica“. Questa volta non c’è un motivo particolare per la canzone che ho scelto, se non che è un brano che amo molto, da quando è uscito, nel 1988, e è che è parecchi giorni che mi ronza in testa: tutto lì!
Mi piace la voce, ombrosa e profonda, di Tanita Tikaram; mi piace l’arrangiamento, trattenuto e soffuso, con un oboe che fa capolino nel ritornello; mi piace il suo incedere, di una melodrammaticità quasi astratta. La Tikaram – nata in Germania, di origine inglese, indiana e malese, e poi cresciuta nel Regno Unito – all’epoca dell’esordio ha solo 19 anni: il singolo “Twist in my Sobriety“, interamente dovuto alla sua penna, non fa gran successo in madre patria, ma conquista invece le classifiche di mezza Europa. E meritatamente, fino a far presagire alla bella brunetta una carriera sfolgorante: peccato che Tanita, col tempo, si sia allontanata sempre più dalle classifiche, pur mantenendo un buon consenso di critica.
Il testo è abbastanza criptico: secondo l’autrice, “parla del non capire: quando hai 18 anni, hai una relazione emotiva molto particolare con il mondo, ti senti isolato, e tutti gli altri sono così distanti e freddi. E penso che stessi cantando di non sentire qualcosa, e non essere coinvolta dalle cose intorno a me“. Sensazione condivisibile, peraltro… Per la cronaca, il titolo significa, più o meno: “Uno sbandamento nella mia lucidità“.