Approfitto della recente recensione del disco dei Fuzztones per approfondire il discorso sul Garage Rock. E, per non essere troppo pesante, divido magnanimamente il mio intervento in tre parti, che vi proporrò con un debito intervallo di tempo.
Pronti? Si va!
Anyone can do it
Il percorso che conduce i Beatles, dalle rudi performance di Amburgo, ai raffinati giochi barocchi di “Sgt. Pepper”, è da alcuni interpretato come cinica furberia per accattivarsi i gusti (e i denari) del pubblico borghese. Per quasi tutta la critica – e chi scrive è d’accordo – si tratta, invece, di un esito forse non obbligatorio, ma senz’altro possibile per chi – come McCartney – è cresciuto ascoltando le Trad band e le canzonette vaudeville, per chi – come Harrison – cammin facendo ha scoperto una vocazione di autore sofisticato, per chi – come il Lennon di quel periodo – non ha la forza per imporre una visione differente, e per chi – come George Martin – è capace di sfornare contrappunti di archi e sferragliamenti honky-tonk senza il minimo sforzo.
Non necessariamente chiunque faccia musica deve affrontare la trasmutazione stilistica sperimentata dai Beatles o, prima ancora, da Presley: e, più di tutti, chi fin dall’esordio sa che avrà una carriera breve, da spolpare con la maggior ferocia possibile. Schiacciata fra il mito, ancora vivo, dei grandi del rock’n’roll, e l’affermarsi della British Invasion, una nuova generazione di dilettanti decide di imbracciare una chitarra elettrica, e sedersi dietro a una batteria: sarà quel che sarà, senza patemi o ambizioni.
I soldi sono pochi; la strumentazione è di bassa qualità; le conoscenze teoriche, prossime allo zero; la perizia tecnica, limitata; le incisioni – se capitano – avvengono in un retrobottega o nel garage di un amico. I più fortunati otterranno qualche passaggio in radio e, se va bene, vedranno il loro nome lampeggiare nei jukebox cittadini; per tutti gli altri, l’orizzonte si chiuderà prima ancora di essersi aperto, restringendosi al dimesso palco di una festa studentesca, o a un umido scantinato, concesso dai genitori per le prove.
Ed è proprio nelle cantine, pressappoco fra il 1960 e il ’67, che la “generazione Garage” prende forma. Questa denominazione – e l’attribuzione di piena autonomia stilistica – sono in realtà posteriori (imprescindibile, in tal senso, l’antologia “Nuggets“): durante la loro esistenza, questi gruppi non godono di un riconoscimento o di una collocazione precisa, e sono trattati al pari di un curioso incidente di percorso. La loro riscoperta avviene durante i primi anni Settanta, quando gli storici e i critici si mettono alla ricerca delle radici del cosiddetto Proto-Punk, genere brutale e selvaggio che – a rimorchio di The Stooges, MC5 e New York Dolls – sta assordando in quegli anni le orecchie degli americani. Le origini sono presto rintracciate nella generazione di dieci anni prima: band dimenticate, e sconosciute ai più, ora letteralmente riesumate e accomunate alla bell’e meglio sotto l’etichetta di “Garage Rock”… Un ribaltamento ironico, che eleva il loro abituale covo di efferatezze sonore a griffe.
Per anni, nessuno ha voluto riconoscere al Garage Rock un’identità stilistica precisa: in realtà una cifra sonora esiste, ma è così semplice e poco “nobile” da non sembrare nemmeno degna di menzione. La formula garage è quasi banale, rispetto alle arzigogolate ricette pop del periodo: strutture formali essenziali, con semplice alternanze di strofe e ritornelli; esecuzioni brutali; chitarre fuzz, e voci sopra le righe; produzione minimale e incisioni approssimative; e, infine, un tono arrabbiato e nervoso, l’amaro retrogusto di una giovinezza trascinata fra vicoli e disillusioni.
É proprio questo, il comun denominatore: quell’attitudine un po’ cazzara e un po’ ribelle che porta a suonare le canzoni del momento “alla buona”, come se non ci fosse un domani. Identificare un brano come “garage” è quindi una cosa più intuitiva che tecnica: più che la competenza critica, conta capire e condividere un certo tono, un umore, un carattere.
Il Garage trova forza nell’essere un fenomeno vario e stratificato, che parte dal basso e non si lega a un territorio particolare, ma attraversa gli Stati Uniti (e il Canada) in modo trasversale. Alcune band nascono nelle periferie industriali, ma esistono anche gruppi provenienti dalle aree rurali, o dalle grandi metropoli: volendo schematizzare, le aree che hanno regalato al Garage i contributi più rilevanti sono il Texas, la California e lo stato di Washington. Ed è proprio qui, nel freddo Nord Ovest, che inizia la nostra avventura.
Louie Louie
Nati nel 1958 a Tacoma (stato di Washington), The Wailers sono la prima band riconducibile al filone Garage. Il demo autoprodotto di debutto è lo strumentale “Tall Cool One”, condotto – caso quasi unico, nel panorama Garage – dal saxofono: messo sul mercato come singolo dalla Golden Crest Records di New York, nel 1959 riscuote un inatteso successo, raggiungendo il trentaseiesimo posto nella Hot100 e garantendo al gruppo la partecipazione a una puntata di American Bandstand.
Incapaci di dare al brano un degno successore, i Wailers assumono il carismatico cantante newyorkese “Rockin’ Robin” Roberts, cambiano repertorio, e fondano una casa discografica, la Etiquette Records, di stanza a Seattle: ma né il primo singolo – “Louie Louie” (1961) – né il live “The Fabulous Wailers at the Castle” riescono a smuovere il complesso dalle sabbie mobili in cui si è invischiato.
Eppure, pochi altri meritano il titolo di “gruppo seminale” come i Wailers. I meriti di Rockin’ Robin Roberts, Kent Morrill e John “Buck” Ormsby sono, infatti, di assoluto rilievo, e vanno oltre la modesta fortuna dei loro dischi. Tanto per dirne una: “Tall Cool One” è la palestra su cui si esercita Jimi Hendrix, all’epoca imberbe e sconosciuto chitarrista di Seattle. Ancora: la carriera dei Sonics, gruppo fondamentale del Garage Rock, sarà incoraggiata e promossa proprio dalla label di famiglia, la Etiquette Records; “The Fabulous Wailers at the Castle”, per la sua influenza, è definito da alcuni critici “il più importante album nella storia del rock di Seattle”; e, infine – ed è la cosa più importante – è grazie all’intuizione di Roberts che la quasi dimenticata “Louie Louie” è ridestata dall’oblio per iniziare un percorso che la promuoverà, in pochi mesi, a simbolo di un intero movimento.
(continua…)
Articolo tratto da “Il Grande Viaggio” – Vol. 2 – Parte Decima
Molto interessante il post. The Velvet Underground li consideri Garage? Io li adoro ma per me sono una storia a parte.
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Direi proprio di no, molto più complessi e con riferimenti all’avanguardia ben evidenti. Cmq grandissimi!
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