La musica ribelle

L’entusiasmo per i teen-idol tiene compagnia ai giovani inglesi per circa quattro anni, dal 1958 al ’62, ma inizia presto a mostrare la corda: quel pubblico nato col rock’n’roll, e che per qualche tempo ha dovuto sopportare Steele e Faith, non si è dimenticato dei brividi trasmessi da Berry e Richard, e ha continuato a tenersi aggiornato: chi rincorrendo sulle frequenze radio i suoni non addomesticati del recente passato, chi seguendo i consigli delle poche riviste specializzate, chi ascoltando i dischi prestati da un amico, e chi passando le serate nei club.

Qualcuno è pure diventato un musicista… Ma non è una vita facile. Non che manchino gli spazi per suonare – e i numerosi Skiffle Club prima, e i Folk Club dopo, ne sono un esempio: è che, in questi anni, passare dal dilettantismo al successo è davvero un’impresa. Negli Stati Uniti al rock’n’roll (e alla teen music in genere) ci si era arrivati gradualmente, attraverso il rapporto continuo fra pubblico e artista, mediato da una rete capillare ed efficiente di radio specializzate e disc jockey indipendenti. In Inghilterra questo non è possibile: quattro major e due radio, per natura conservatrici, e null’altro. Se spettatori e musicisti vogliono comunicare, devono necessariamente bypassare il sistema e concentrarsi sulla faticosa trafila delle esibizioni dal vivo: banco di prova senza cui nessuna casa discografica scommetterà mai su un certo cantante.

Nel caldo ambiente del club, nella frequentazione quotidiana e nel brivido imprevedibile del live, il legame fra musicista e pubblico si rafforza e cementa fino a sfiorare la dimensione fideistica, con tutto il contorno di mode e subculture giovanili che proprio alla musica moderna fanno riferimento. Per conquistare l’attenzione della platea – e delle case discografiche – è importante suscitare clamore, e inventarsi qualcosa che – prima delle orecchie – colpisca gli occhi: nulla di più facile che giocare sull’aspetto visivo e sul look… Ma non certo sulla faccia pulita e sui sorrisi compiacenti dei teen-idol. Questo è rock’n’roll, bellezza!

Uno dei casi più significativi di quegli anni avventurosi è rappresentato dalla vicenda di Edward Sutch (1940-’99): appassionato del rock’n’roll e del rhythm’n’blues più cupo, assorbe la lezione grand-guignol di Screamin’ Jay Hawkins e la ripropone in una veste, se possibile, ancora più clownesca. Cambiato il nome nell’allusivo Screaming Lord Sutch, a partire dal 1961 allestisce foschi spettacoli a tema horror, che anticipano di almeno dieci anni i concerti di Alice Cooper: Eddie e i suoi musicisti – The Savage – agghindati in tuba e mantello, con tanto di make-up truculento, o armati con daghe ed elmi, si muovono fra teschi, lame e corpi mutilati… Baracconate che fanno passare in secondo piano una qualità vocale scadente, e un talento dozzinale. Fra i molti brani si segnalano, per motivi opposti, due oggetti: il primo è il singolo “Jack the Ripper” (1963), prodotto da Joe Meek, con l’urlo della vittima in apertura, diventato poi un classico del garage-rock; il secondo è il più recente album “Lord Sutch and Heavy Friends” (1998) che, nonostante i contributi stellari (suonano con lui gli amici Jimmy Page, Jeff Beck, Noel Redding e Nicky Hopkins), vince il premio della critica per il peggior album di tutti i tempi!

Per fortuna, non sempre sguardi sinistri, costumi eccessivi e allestimenti kitsch sono il rifugio degli incapaci: se Johnny Kidd & the Pirates sono considerati uno dei gruppi british più influenti, il motivo non sta certo nel pittoresco look da pirati (con tanto di benda nera e spade sguainate), e nel finto galeone chiamato ad adornare il palco, ma in qualcosa di ben più importante.

Capitanati da Johnny Kidd (al secolo Frederick Albert Heath, 1935-’66), The Pirates impressionano i loro coetanei per il modo, da veri duri, di tenere la scena. In prima linea c’è Johnny, benda nera sull’occhio, animo truce e piede che batte minaccioso il tempo: alle spalle, il batterista Clem Cattini; ai fianchi, la fida chitarra di Alan Caddy e il basso di Brian Gregg. Il leader – caso inusuale, per l’epoca, e per i gruppi rock’n’roll in genere – non suona alcun strumento, ma si concentra solo sul canto, e sulla gestione del palco. Nessun orpello, nessuna seconda chitarra: ma tre musicisti e un cantante, che cercano – in contrasto con la stravaganza della scenografia – di suonare nel modo più diretto, asciutto e “rock’n’roll” possibile… E ben lo sanno gli imberbi Who che, all’uscita di un concerto dei Pirati, decideranno di affrancare Roger Daltrey dalla chitarra di accompagnamento, per trasformarlo in uno dei primi front-man del rock.

Il brano che li consegna alla storia è lo spoglio e minaccioso “Shakin’ All Over”: singolo guidato dalla sei corde e pieno di riverbero, nella sua essenzialità sembra quasi anticipare il punk, e contiene una memorabile parte del chitarrista ospite Joe Moretti. Uscito nel 1960, ad Agosto conquista il primo posto della classifica, ma pare destinato a non superare i confini inglesi: prima toccherà ai canadesi Guess Who, cinque anni dopo, farne un’azzeccata e celebrata cover, elevandolo a  classico mondiale… E poi agli ammiratori di sempre, The Who.

Il tentativo di dare seguito a ”Shakin’ All Over” non riesce, e dopo un paio di singoli interessanti ma senza fortuna (“Please Don’t Bring Me Down” e “So What”) la formazione si sfalda: i compagni lasciano il leader per unirsi ai Tornados, e sono rimpiazzati da un nuovo terzetto. Gli ultimi lavori dei Pirates si devono confrontare con la crescente marea Beat, ma se la cavano egregiamente: “A Shot of Rhythm and blues” (1962) è una sorta di ponte ideale fra rock’n’roll e British Blues, mentre “I’ll Never Get Over You” (un buon quarto posto) e “My Babe” (1963) presentano una band in stato di grazia, fedele al motto garage “buona la prima”. La storia dei Pirates si interrompe improvvisamente nel 1966 a causa di un incidente stradale che coinvolge lo sfortunato leader.

Il terzo artista “maledetto” del rock’n’roll britannico è, se possibile, ancora meno popolare: senza maschere o aggeggi scenici, ma provvisto di una sana dose di impudenza e sfacciataggine, mette a segno un unico, grande, singolo prima di imbarcarsi nella solita trafila di alcol, droghe e sfortune varie, e morire di malattia in Svizzera, dove il suo spirito inquieto ha nel frattempo trovato pace. E dire che per Brian Holden, in arte Vince Taylor (1939-’91), tutto sembrava messo nel verso giusto: nel 1955 la sorella sposa Joe Barbera, socio della mitica etichetta di cartoon, e porta il giovane Brian a Hollywood, dove ha modo di vedere coi propri occhi Gene Vincent e Presley, e innamorarsi senza speranze del rock’n’roll.

Sponsorizzato dal potente cognato, torna a Londra, entra nel giro del 2i’s Coffee Bar, e coi suoi Playboys tenta la scalata al successo. Il secondo singolo, pubblicato a marchio Parlophone, è la cover della ballata “Pledgin’ My Love”, ma a passare alla storia è la B-side, il rockabilly “Brand new Cadillac” (1959): brano autografo, torvo quanto basta, sorretto da un pulsante giro di chitarra, e che beneficia – proprio come “Shakin’ All Over” – di un brillante assolo dell’ottimo Joe Moretti. Un gran pezzo, insomma: ma le vendite non arrivano, e la diffidente Parlophone – messa in allarme dal caratteraccio dell’aspirante star – rescinde il contratto: peccato, sarebbe bastato aspettare… Chissà come, il disco arriva nei paesi scandinavi, e dà inizio a un imprevedibile domino: la cover degli svedesi Shamrocks entra nelle classifiche francesi, e da qui si diffonde in quelle tedesche ed europee, spingendosi fino al lontano Giappone (vent’anni più tardi se ne ricorderanno i Clash, con la brillante cover presente in “London Calling”).

Taylor e i Playboys, abbandonati dalla Perfida Albione e felici esuli nell’accogliente Parigi, incidono una serie di energiche e rispettose cover di classici come “Sweet Little Sixteen”, “C’mon Everybody” e “Long Tall Sally”. L’incanto dura lo spazio di tre anni: nel ‘64 i compagni licenziano per la seconda volta – e senza appello – il prodigioso ma ingestibile amico, caduto nel frattempo nella spirale della droga e dell’alcolismo.

Straordinario cantante, autentico animale da palcoscenico, con la sua immancabile giacca di pelle e catena da biker al collo, Vince rappresenta – forse ancor più di Johnny Kidd – l’anima del rock’n’roller inglese di quegli anni: uno spirito maledetto, talentuoso, intrattabile e dal fortissimo impatto visivo, che si rifà al rock’n’roll americano – e alle sue derive delinquenziali e bohemien – con un mix di sincera devozione e aggressiva personalità.

 

Articolo tratto da “Il Grande Viaggio” – Vol. 2 – Parte Nona

…Coming soon!

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