(continua dalla seconda puntata)
Calor bianco
Limitare l’articolata e colorata storia del Garage Rock a una scopiazzatura di “Louie Louie”, o a un elenco di band-fotocopia, sarebbe un errore: potrebbe passare l’idea che il Garage sia una presenza senza (o quasi) connessioni col resto del panorama musicale… Nulla di più sbagliato.
L’origine del Garage affonda le sue radici, più che in uno stile preciso, in un sottobosco vario e stratificato. A riannodare i mille fili sparsi, e dare loro una coerenza che va oltre il puro aspetto formale e stilistico, è un sentimento, una “attitudine comune”: l’amore per le canzoni semplici e l’immediatezza dell’approccio, alimentate da un cupo senso di frustrazione e isolamento… Quel medesimo sentimento da cui era nato il rock’n’roll: e che ora riemerge fra i giovani diseredati di pelle bianca, che si trascinano fra suburbi squallidi, aspirazioni tradite e bassi redditi.
È qui – anche se non solo qui – che va cercato il motivo per cui, tranne rari casi, il Garage, l’hard rock, l’heavy metal e in genere la “musica dura” hanno una matrice razziale bianca: un concorso di cause che include abitudini ataviche, ragioni di psicologia sociale, differenti terreni culturali e diverse scuole di riferimento.
I neri – che hanno trovato da tempo mille modi (gospel, blues o spiritual) per raccontarsi, consolarsi e sognare un riscatto – non devono cercare a tutti i costi qualcosa di nuovo per esprimere il loro atavico disagio. La rabbia dei bianchi è stata invece covata in silenzio, e raramente messa in musica: e ora, che il pentolone sta per tracimare, la risposta non potrà che esser fragorosa.
Serve – e in fretta – una musica rapida, veloce, dura e spietata, come i tempi e i luoghi in cui abitano. E quindi: un sound energico e ruvido (Link Wray e il Surf strumentale); la ribellione urbana (la giacchetta di pelle alla Gene Vincent e lo sguardo corrucciato di Eddie Cochran) e quella alla moda dei Beatles; il divertimento estivo (la Beach Music) e lo sballo da confraternita (il cosiddetto Frat Rock [1]); e, perché no, il rhythm’n’blues da ballo, purché asciugato e privato di quelle variabilità date dai fiati e dall’emotività tipiche dello slang musicale afroamericano… Ma, sopra tutto, irrinunciabile e imprescindibile, la chitarra distorta (per quanto le tecniche dell’epoca consentono): un’abitudine che era stata uno dei caratteri distintivi del Beat, e che riecheggia la predisposizione africana all’alterazione timbrica.
È proprio dal Beat, e dalla generazione a rimorchio, che nascono i primi esempi di “chitarrizzazione” delle canzoni nere, e di uso strutturale del suono duro. È la British Invasion, ancora una volta, ad accendere la miccia. Il successo di Beatles e soci, favorisce l’emersione definitiva del Garage Rock dagli scantinati e dai pub in cui era rintanato. Il Garage, beninteso, non è e non sarà mai un fenomeno di massa: non ha i numeri dei Beatles, non ha la sensualità degli Stones, non ha i contenuti politici del Soul e non conosce la creativa inquietudine di Bob Dylan… Eppure, fra il ’64 e il ’67, sono a decine i gruppi che decidono di seguire la lezione di Kingsmen e Sonics. Dal New Jersey arrivano The Knickerbockers (“Lies”, 1966); il vicino Connecticut dà i natali ai Fifth Estate, che esordiscono con il singolo rock “Love Is All a Game” (1965); nell’aristocratica Boston debuttano The Remains, indiavolati interpreti di classici rock’n’roll (“Diddy Wah Diddy”), e opening act dei Beatles nella loro ultima tournée americana.
L’Ovest degli States non è da meno. Los Angeles dà i natali agli Strawberry Alarm Clock, conosciuti per l’hit “Incense and Peppermint” (1967), ai The Seeds, maestri di grezze armonie abbarbicate a un unico accordo (si affermano col canto sgarbato di Sky Saxon e con “Can’t Seem To Make You Mine”) e “Pushin’ Too Hard”), e agli Standells di Larry Tamblyn e Tony Valentino: fra i primi americani a presentarsi in tv con i capelli lunghi, annegano la loro “Dirty Water” (1966) in un tripudio di voci sgolate, riff di chitarra fuzz, e sound scabro. The Rivieras arrivano invece dall’Indiana, e si ricordano per la brillante “California Sun” (1964), l’ultimo hit made in usa prima della valanga-Beatles.
Pur esulando non poco dalla canzone anglofona, non possiamo esimerci dal citare Los Saicos: un gruppo di Lima, Perù (!), capace di inventare dal nulla un brano come “Demolición” (1965): una sarabanda sonora inaudita, con batteria tribale, chitarre sgraziate e voce rantolante e balbettante… Il tutto, ovviamente, in spagnolo! Fra le Garage band di cui si abbia memoria, Los Saicos sono senza dubbio i più credibili padri spirituali del Punk: e, come prescrive la mitologia rock, dopo il folgorante successo di “Demolición”, spariranno come fantasmi, nascondendo il proprio delinquenziale passato alle ignare famiglie.
[1] Più una tendenza che un vero e proprio genere, il Frat Rock (da “frat”, abbreviazione di “fratellanza”, “confraternita”) è un filo rosso che unisce tutte le canzoni chiamate a dare sostegno alle feste dei college. Nel Frat Rock c’è il Garage, ovviamente, ma non solo: l’importante è che i brani siano ritmici, i testi ironici e salaci, e richiamino lo sballo alcolico. E, quindi, “Louie Louie”, in tutte le sue versioni, ma anche il Beat esasperato di “Double Shot of My Baby’s Love” degli Swinging Medallions e di “Wooly Bully” di Sam the Sham and the Pharahos, il proto-punk “Nobody But Me” degli Human Beinz, “96 Tears” di ? and the Mysterians, e “Land of a Thousand Dances” di Cannibal and the Headhunters… E già dai pittoreschi nomi di queste band, intestate a Faraoni, Cacciatori di Teste e Punti Interrogativi, si capisce quale sia lo spirito di fondo.
Articolo tratto da “Il Grande Viaggio” – Vol. 2 – Parte Decima