Le Stelle di Mario Schifano – “Dedicato a …”

“Mio Dio, è pieno di stelle” (David Bowman)

Su quattro schermi panoramici, disposti lungo le pareti del locale, scorrono immagini, colori, spezzoni video: guerriglieri vietnamiti, frammenti di film di Tom Mix, diapositive, un super 8 familiare. Sul palco si alternano poeti, artisti figurativi e l’attore Gerard Malanga, mentre una musica – ostica, devastante, senza direzione – è suscitata dai quattro della band, aiutati dal cantautore americano Shawn Phillips, piazzato al sitar. E no: non siamo da qualche parte degli States, e questo non è il carrozzone di Lou Reed, Nico e Andy Warhol. Ma è Roma, è il Piper. È il 28 Dicembre 1967, e si sta svolgendo una delle performance più allucinate ed eretiche che l’Italia del bitt abbia mai vissuto: “Grande angolo, sogni e stelle”, by Le Stelle di Mario Schifano.

Siamo in uno di quei casi in cui la carriera di un gruppo si concentra in un solo disco e in pochi mesi di vita: ma in così poco capita così tanto che è impossibile parlare “solo” dell’album. E, quindi, dobbiamo riavvolgere il nastro di qualche mese, e tornare a inizio anno, quando in Veneto – dall’incontro fra il bassista Giandomenico Crescentini (ex New Dada), il chitarrista romano Urbano Orlandi, il tastierista Nello Marini e il batterista alessandrino Sandro Cerra – nasce il quartetto beat Le Stelle. Arrivati a Roma in cerca di fortuna, il produttore cinematografico Ettore Rosboch li introduce all’allora trentatreenne Mario Schifano, amico d’infanzia e nume tutelare della Pop Art made in Italy.

Schifano, artista dalla fiammeggiante creatività, e che non si è fatto mancare nemmeno un triangolo con Marianne Faithfull e Mick Jagger, coglie al volo l’occasione per dare concretezza al sogno che più lo affascina: fare un bel mischione tra cinema, fotografi e musica.

Eh sì, difficile non pensare all’Exploding Plastic Inevitable dei Velvet Underground di Warhol. Ma Mario si spinge più in là: come un buco nero, risucchia inesorabilmente musicisti, idee e buon senso, e trasforma la collaborazione in un esercizio di megalomania.

Innanzitutto mette subito un chiaro copyright sull’operazione: “Le Stelle” diventano “Le Stelle di Mario Schifano” (Warhol, che come presunzione non era certo un dilettante, non aveva mai osato fare tanto con Lou Reed…). E poi il disco: ancora a venire, ma già immaginato con una grafica disegnata da lui stesso medesimo (con in copertina le – ma và! – stelle, che in quegli anni realizza nei modi e sui supporti più disparati), con una dedica indirizzata a ben 120 destinatari (tipo matrimonio del Boss delle Cerimonie), e col ricorso a un organico addizionale di suo gradimento.

A Settembre le Stelle di manifestano pubblicamente: un concerto al Teatro di via Belsiana (Roma), allora sede della compagnia teatrale “Porcospino” di Dacia Maraini e Alberto Moravia. Di quello spettacolo abbiamo solo un fotogramma, inserito nel booklet del cd, e una cronaca di grandi entusiasmi e sguardi d’indignazione.

Nel contempo “Le Stelle” migrano a Torino, per una serie di concerti al Piper, versione subalpina del più noto omologo di Roma: un club aperto il 26 Novembre 1966 nei sotterranei dell’attuale cinema Reposi, e che cerca – con successo – di trasformare la prima capitale d’Italia nella Swingin’ Turin. Il Piper, aperto da Pietro Derossi, è un crocevia di musicisti, artisti, poeti e attori da fare invidia a Milano e Londra: Patty Pravo, Carmelo Bene, il Living Theatre, Mario Merz, Alighiero Boetti, modelle che sfilano in vestiti di plastica trasparente con tanto di pesci rossi che ci nuotano dentro: e, in mezzo a questa bizzarra e per nulla sabauda follia, le Stelle e la loro musica. Ma anche di questo, tranne un nastro custodito gelosamente dal titolare del negozio Collector’s Corner, che ai tempi ne ha curato il light show, nulla resta.

Il Piper di Torino

Schifano a Torino non c’è, ma ha dato chiare istruzioni a Rosboch, intimando che il beat del complesso debba essere raschiato via, e rimpiazzato da qualcosa di più estremo. E impone ad alcuni artisti freak di unirsi alla band: lo scultore d’avanguardia svizzerofilo Peter Hartman, l’artista visivo Paul Thek, Ettore Rosboch al pianoforte, Antonmario Semolini (oggi orchestrale Rai) al flauto, e alla voce la hippie ante-litteram Francesca Camerana (nipote di Giovanni Gentile, e attuale direttrice di Lingotto Musica). Chiusa nel Fono Folk Stereostudio di Torino, la gang partorisce una delle performance più estreme e free di tutti i tempi, e il cui estenuante titolo – “Le ultime parole di Brandimante, dall’Orlando Furioso, ospite Peter Hartman e fine (da ascoltarsi con tv accesa, senza volume)“ – fa presagire una durata non certo da canzonetta. I 17 minuti e fischia del brano non sono un unicum, per l’epoca: occupare un lato di un 33 giri con un unico pezzo, o con un collage, stava diventando un’abitudine… Ma tutti, finora – compreso il freak per antonomasia, Frank Zappa – avevano sistemato il “pezzone” sulla B side: come pudicamente a suggerire “dopo le cose normali del lato A, se vi va, ci sarebbe anche questo”. Ma Schifano no; e, come dice Julian Cope, “Ettore Rosboch e Mario Schifano decisero sfacciatamente che se volevano dare l’idea di essersi spinti più in là di qualunque altro, non si potevano permettere di nascondere il loro capolavoro sul secondo lato. No, questo figlio di puttana sarebbe diventato la loro dichiarazione d’apertura“.

Una proclamazione d’intenti tutt’altro che accomodante, e che mette subito le cose in chiaro: dopo il vociare dei musicisti, colti mentre si apprestano all’incisione, e dopo un accumulo di frammenti percussivi e dei cluster del piano di Hartman,  la Camerana declama in latino un mottetto rinascimentale, che cita proprio il passo dell'”Orlando” del titolo. Al terzo minuto la canzone esplode: fra urla, scalpiccii ossessivi e tastiere sghembe, la chitarra acida di Orlandi prova a suggerire un senso, una figura vagamente melodica: ma non c’è scampo, l’entropia ruggisce e impone la sua legge. L’aggressione sonora continua, non dà tregua: una furia che a tratti sussurra il ritorno a panorami più quieti ma che subito collassa nello sfacelo armonico, fra rallenty, accelerazioni, stasi e iterazioni apocalittiche. L’ironico innesto, proprio a pochi secondi dalla fine, della sigla Rai della “Fine delle trasmissioni” (“Armonie dal Pianeta Saturno” di Roberto Lupi), è l’epilogo più straniante che si potesse pensare: ma non mette certo fine a una performance destinata a rimanere nella nostra memoria ben oltre l’ultimo microsolco.

Da più parti la musica delle Stelle è stata catalogata come psichedelica: ma non la psichedelia jazzata dei Caravan, quella lisergica dei Grateful Dead o quella raga dei Byrds, bensì il suo dark side… Quella psichedelia, cioè, macchiata di avanguardia, rumorismo, anarchia e disgregazione formale. Una landa venata di libertà e follia che solo pochi – e penso ai Red Crayola, ai Pink Floyd di “Interstellar Overdrive”, agli Amon Düül di “Phallus Dei”, ai Velvet Underground di “European Son” – hanno osato traversare.

Coraggiosi sì, anarchici pure: ma nemmeno Schifano poteva pensare che TUTTO il disco perseverasse in un tale flirt con l’indefinito sensoriale. Ed è così che la B-side, con le sue cinque canzoni, di lunghezza standard e cantate, pare quasi chiedere scusa, e ricondurre tutto in un territorio – se non canonico – comunque più familiare. “Molto alto” e “Susan song” sembrano uscite dalle session meno alienate dei Velvet Underground, “E dopo” è un beat abbastanza ordinario, reso appena più originale dalle sferzate di chitarra fuzz, “Intervallo” è un rnb intriso di cazzeggio e distorsioni, e la conclusiva “Molto lontano (A colori”), col suo flauto e l’andazzo raga, sembra riportarci nella Frisco degli hippie e degli Airplane.

Un esordio così radicale, che si rifà in modo originale alle esperienze più estreme del rock, poteva forse conquistare i favori del pubblico? E, per di più, in quell’Italia per cui “fare rock” significava per lo più imitare e tradurre il Beat estero? Fatto sta che a Novembre del ’67, per la BDS (costola della Ariston), le Stelle pubblicano il loro album di debutto. Il disco è curato da Schifano nei minimi dettagli: una copertina argentata, con interno sfogliabile, e foto del gruppo ritoccate dall’artista; una dedica, come abbiamo detto, infinita (e da qui, il titolo: “Dedicato a…“; e certo, è Schifano a dedicare il disco a …, mica i musicisti!); e una tiratura limitata. Proprio come un’opera d’arte, le cinquecento copie del vinile sono distribuite (pochissimo) nei negozi e (un po’ di più) nelle gallerie, e sono corredate da bizzarrie: le prime cinquanta sono in vinile rosso, e alcune contengono un cartoncino con la scritta “In caso di reclamo, unire il presente talloncino”. I prezzi, ovviamente, non sono da pubblico di massa: pare che le copie con le litografie originali costassero ben 40.000 lire.

Gerard Malanga & Velvet

Opera d’arte, il disco: e opera d’arte sarà “Grande angolo, sogni, stelle”, il concerto del 28 Dicembre al Piper di Roma. Un happening multisensoriale di cinque ore e di cui, come al solito, non si hanno tracce visive o sonore, ma solo i racconti dei pochi fortunati. Alberto Moravia scrive un articolo per L’Espresso, intitolato “Al nightclub con i Vietcong”, dove parla di “aggressione musicale”, “immagini sfocate e irreali”, “luci accecanti e frenetiche”, “effetti imponenti di dilatazione e amplificazione di specie stroboscopica”. E, per la prima volta a Roma, si fuma marijuana in pubblico. Gerard Malanga, che negli spettacoli dei Velvet agitava una frusta sadomaso sul palco, e che qui fu parte attiva, dichiara: “Mario raggiunse il suo obiettivo: lo spettacolare son et lumière aggiunse un’altra dimensione ai suoi dipinti a più livelli e i suoi film divennero parte integrante dello spettacolo di luci nel suo insieme. Da quel momento in avanti, la sua attività di pittore assunse una ulteriore qualità multidimensionale”.

La popolarità del disco, che fin dall’inizio si presenta come un oggetto di culto, nel corso degli anni lievita lentamente, ma senza mai fermarsi: il concerto di Roma è bollato dagli storici come “il momento in cui nacque la musica alternativa italiana“, e l’album come uno degli eventi più alti ed eclettici del rock del belpaese, che in un modo o nell’altro aprì strada, orecchie e cuore a una nuova generazione di musicisti. Julian Cope, nei suoi interventi nei primi anni del web, porta all’attenzione delle platee internazionali l’epopea delle Stelle. Ma, nonostante il rilievo storico e l’incensamento della critica, il flop è di quelli epocali.

Schifano resta così deluso da abbandonare, e per sempre, la “sua” band e il rock. Le Stelle del dopo-Schifano si eclissano in fretta: giusto il tempo di pubblicare un irrilevante 45 giri beat (“E il mondo va / Su una strada”), e si sciolgono. Il solo Nello Marini – che, fra parentesi, assieme a Crescentini, è l’unico dei quattro ancora in vita – tenta di proseguire la strada della canzone pop con i Venetian Power: ma chi se li ricorda più? Il vinile originale diventa invece il Sacro Graal dei collezionisti, e sarà ristampato tre volte: nel 1992 dalla Mellow, nel ’99 dalla Akarma e nel 2015, infine, in una riedizione AMS conforme alla prima tiratura.

Abbiamo detto che gli echi e i rimandi fra l’esperienza dei Velvet e quella delle Stelle sono evidenti: ma anche le differenze. In fondo, basta una semplice considerazione: i VU, dopo la fine del sodalizio con Andy, hanno continuato a macinare musica di alto livello, sia in gruppo che come solisti. Le Stelle, invece, non erano altro che quattro buoni mestieranti toccati dalla Grazia e la cui carriera, cessato il rapporto con Schifano, si è smarrita fino a perdersi. Senza Warhol, i Velvet ci sarebbero stati, anche se non nella forma che abbiamo conosciuto; mentre le Stelle, senza Schifano, sarebbero rimaste una piccola costellazione di nane brune, nota solo a qualche astronomo, e non le supernove che – per un solo, glorioso, istante – furono.

Il parallelo con i Velvet ci sta tutto, ovviamente: ma è anche limitante, e non onora nel giusto modo il sound delle Stelle e l’intuizione di Schifano. Lasciamo l’ultima parola, quindi, a quel Gerard Malanga che fu dei Velvet, fu delle Stelle, e che più di tanti ha quindi titolo a dire la sua: “A torto si è lasciato intendere che Mario provasse a emulare il successo di Andy con i Velvet e il loro spettacolo Exploding Plastic Inevitable. Ma come avrebbe potuto? Non aveva mai visto le esibizioni dei Velvet dal vivo!”.

 

Le stelle di Mario Schifano – “Dedicato a …” (studio album)

Pubblicazione: Novembre 1967 – BDS
Tracklist
  1. Le ultime parole di Brandimante, dall’Orlando Furioso, ospite Peter Hartman e fine (da ascoltarsi con tv accesa, senza volume) – 17:40
  2. Molto alto – 3:14
  3. Susan song – 3:48
  4. E dopo – 2:14
  5. Intervallo – 2:37
  6. Molto lontano (a colori) – 2:50

I testi e le musiche sono delle Stelle di Mario Schifano; “Susan song” è scritta dal gruppo insieme a Paul Thek.

Musicisti
  • Nello Marini – voce, tastiere
  • Urbano Orlandi – voce, chitarra
  • Giandomenico Crescentini – voce, basso
  • Sergio Cerra – batteria
Musicisti addizonali
  • Peter Hartman – pianoforte
  • Ettore Robosch – pianoforte
  • Antonio Mario Semolini – flauto
  • Paul Thek – tamburello
  • Francesca Camerana – voce, chitarra

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