“Fairytale of New York”: la non-favola di Natale

Ciao a tutti, e buon Natale. Buon Natale, si: ma non tutti i Natali sono buoni. Ci sono Natali trascorsi al capezzale di un caro, altri in cui sei sotto le bombe, altri ancora passati a dormire in un ricovero per sbandati, o semplicemente in cui tutto ti sembra inutile, triste e senza scopo. Al di là delle retoriche e delle frasi fatte, Natale può diventare uno dei giorni più tristi dell’anno, traboccante rimpianti, sogni e occasioni perdute.

E ben lo sanno Shane MacGowan e i suoi celtic-punk Pogues, che nel 1987 pubblicano “Fairytale of New York“: brano uscito prima come singolo, e poi incluso nell’album “I If Should Fall From Grace with God”, e che gronda irlandesità e alcol da ogni nota. La storia del pezzo è lunga, travagliata e piena di ostacoli: basti dire che, dall’idea iniziale, ci vogliono due anni per venirne a capo… Ma ne vale la pena.

Sebbene il singolo non guadagni mai il primato di “numero uno di Natale” nel Regno Unito, negli anni conquista così tanto affetto e rispetto da diventare, in quel pase, la canzone natalizia più ascoltata del 21° secolo. Come sapete non mi lascio trasportare troppo da confidenze e emozioni, nei miei post, ma qui lo devo ammettere: quando ascolto questa canzone, mi viene sempre il magone.

Nessun abete addobbato, nessun caminetto acceso, alla Vigilia di Natale: ma la cella di un carcere newyorkese, alcuni relitti umani e un avvinazzato irlandese che, chiudendo gli occhi al suono di una vecchia ballata, inizia a sognare di lei. E, mentre il pianoforte accompagna la voce da beone di Shane, scorrono, come in un film, le immagini di loro due, colti all’inizio della storia, quando il futuro è ancora da scrivere: poi il ritmo improvvisamente accelera in una giga irlandese, ancora il tempo di respirare l’aria dell’America ottimistica degli anni Cinquanta e, dopo l’assolo di tin whistle, tutto cambia. Nei ricordi del protagonista sono di colpo passati anni: la vita è andata male, finita la dolcezza, finite le speranze e i sogni. I due (e due, ora, sono le voci) si lanciano insulti, sempre più pesanti, di tradimenti e di destini ormai allo sbando. C’è ancora, alla fine, e per fortuna, spazio per una luce di speranza: “[i tuoi sogni] li ho tenuti con me, bambina, li ho messi insieme ai miei“… Ma forse è solo l’ultimo, disperato, delirio di un ubriacone.

Sì, perché questo testo, e questa canzone, mi ricordano tanto il film “C’era una volta in America“: per l’atmosfera di amore, fiducia e tradimenti che trabocca da entrambe le storie; e per il finale, che sia nella canzone che nel film lascia aperta la possibilità che tutto quello cui abbiamo assistito non sia altro che una fantasia (da oppio in un caso, da alcol nell’altro) di un povero disgraziato, che lacrima ricordi e tempo andato… Mentre la banda della polizia, proprio come in un sogno, continua imperterrita a intonare il classico irlandese “Galway Bay”.

La musica, in soli quattro minuti, come nella più autentica tradizione Irish, galoppa attraverso una gamma di stati d’animo disparati, dall’euforico al sentimentale, dal diffamatorio al devoto: e le due voci – quella del leader e anima perduta Shane MacGowan, che biascica intonazioni imperfette, e della partner Kirsty MacColl, con la sua mistura di cattiveria, femminilità e romanticismo – danno vita a una coppia come tante, perduta fra i vicoli e la dura pioggia della Grande Mela. Giusto ambientare una storia come questa a Natale: periodo buono per ricordare non solo lustrini e pacchetti rossi ma, anche, la disparità tra chi ha tutto e chi non ha niente.

Una storia così amara e tenera – una, a suo modo, autentica “Non-favola di New York” – poteva solo scriverla un farabutto come Shane MacGowan: e Tom Waits, ne sono certo, avrebbe voluto metterci lui la firma.

Forse mi faccio troppo emozionare dal lato oscuro del Natale, e dalla mia sempre adorata musica… “In fondo è solo una canzone“, dirà qualcuno. Ma che “Fairytail of New York” sia null’altro che una recita di professionisti del disco andateglielo a dire a Shane MacGowan, ubriacone dai denti marci, grand’artista e angelo autodistruttivo come pochi, morto per una polmonite cui il suo corpo, distrutto da anni di eccessi, non seppe far fronte. E che la disperazione e la tenerezza vadano di pari passo solo nella fantasia delle canzoni, diteglielo anche a Kirsty: morta a 41 anni nelle acque del Messico, mentre col suo corpo faceva da scudo alla figlia Jamie, contro cui stava puntando a mille un maledetto motoscafo-pirata.

Qui sotto non troverete il video originale della canzone (facilissimo da reperire: e in cui, fra gli altri, recita anche l’attore Matt Dillon), ma una versione sottotitolata in italiano, così da poter meglio seguire questo onesto, disperato piccolo, grande, classico.

E non mi trattengo, in chiusura, dall’inserire una nota polemica. Qualcuno – la BBC, in primis – ha tentato più volte di censurare le parole “troia” e “frocio” con cui, nel loro delirio, i due amanti si insultano, borghesemente stupendosi che due tossici si insultino usando proprio questi termini. Ma il 91% degli ascoltatori, rispondendo a un sondaggio a tema, ha affermato che non si è mai sentito offeso dal testo. Bene così: almeno questo.

E ora buone feste, amici miei.

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