Uno speciale pomeriggio normale

Ciao a tutti. Oggi non parlo di musica: cosa strana, per questo blog, ma non del tutto inconsueta. Nessuna emergenza o sfiga, nessun allarme o evento eccezionale da raccontare: ma la cronaca di un pomeriggio normale, eppure speciale.

E’ sabato, sono in visita da mia madre, come tutti i weekend: ha 86 anni, e mi fa piacere passare una giornata con lei, nonostante la testa dura. Mi fa piacere, si: ma oggi, chissà perché, mi sento nervoso e ho bisogno di un po’ d’aria; e, visto che ha smesso di piovere, me ne vado a fare un giro. E’ pomeriggio. Bighellono per le vie della mia città natale senza una meta precisa, giusto per sentire quest’aria leggera del dopo pioggia, che tanto mi piace: così come mi piace l’atmosfera di provincia, che sa di passato, di strade un po’ storte, di gente che si saluta con un cenno, e di saracinesche di negozi che sferragliano… Come direbbe il mio illustre concittadino, “quelle drogherie di una volta, che tenevano la porta aperta davanti alla primavera“.

Svolto in una via laterale, e mi trovo davanti alla Chiesa di San Martino: ci sarò entrato due volte in vita mia, e ne ho solo un vago ricordo. E’ ancora presto ma il portone, stranamente, è aperto: scosto il velluto viola, metto il viso dentro, butto un occhio e, dalla mia destra, giunge una voce… “Buongiorno“. Su una sedia di plastica, in un angolo, c’è un uomo: un signore d’età, piccolino, robusto, con un giubbotto, un berretto di lana e due bei baffi, mi saluta. Simpatico. “Buongiorno a lei. Sa, pur essendo nato qui, è da tanto che non entro in questa chiesa…“, faccio, quasi a giustificarmi. “Ha fatto bene. Sa che questa, per importanza, è la terza chiesa della città? Se vuole, facciamo una visita“.

E così iniziamo. San Martino è una costruzione di media dimensione, tardo-barocca con accenni rococò; la luce grigia del pomeriggio, che si fa largo dai pochi oculi, illumina a malapena l’ambiente: ma siamo solo noi, e mi lascio prendere dal momento. La guida (un volontario della parrocchia) mi recita qualche nota storica sulla chiesa, mi illustra un paio di pale d’altare e, con molto orgoglio, l’affresco della cupolaispirato al Correggio“: e mi diverte riconoscere, nei nomi dei pittori, le intestazioni di un paio di vie cittadine, che ho percorso mille volte, ma senza mai chiedermi chi fossero, questi “Aliberti” e “Pittatore”.

Ammiriamo il pulpito, attraversiamo l’altare e il coro: e poi la sacrestia, con un soffitto “che sembra fatto ieri“, un piccolo museo di arte sacra (allestito durante il lockdown) con suppellettili, candelabri, croci, santi e una pianeta, e più in là un arazzo, riportante una sorta di “albero genealogico” delle famiglie locali. Mi invita, divertito, a rintracciare i cognomi di miei amici: e come non trovarli? In fondo ogni città di provincia ha i suoi cognomi tipici: nobili presidi slow-food della parentela.

Mezz’ora passa in un niente: anche perché sono un chiacchierone, e mentre mi racconta anche io racconto, chiedo, mi soffermo e rifletto. La visita è alla fine: metto qualche euro nella cassetta delle offerte, mentre la guida mi invita ad annotare le mie impressioni sull’inevitabile quadernone dei ricordi. Inaspettati, entrano alcuni turisti: il signore mi saluta, e inizia un nuovo giro, felice come una Pasqua. “Il signore”, già: manco so come si chiama… Avrei potuto chiederglielo: ma ormai è tardi. E, intanto, la chiesa non è più mia: è passata ad altri, a quelle persone appena arrivate, e che stanno col naso all’insù, a vedere la cupola “che sembra quella del Correggio”.

Alzo il bavero del giaccone, ed esco: dal piccolo sagrato, che si confonde con la strada, mi volto ancora un attimo, e osservo la facciata. Mi sento bene, tranquillo e in pace. Sì, la chiesa è bella, la visita è stata piacevole, e tutto quanto: ma è stata la sorpresa, se pur piccola, ad aver cambiato il mio pomeriggio. Entrare per caso in un posto non conosciuto della tua città, non aspettarsi nulla, e trovare qualcosa: una bella persona con cui chiacchierare, il silenzio della penombra, le figure dei quadri, i cognomi dell’arazzo… Un senso di intimità profondo: di appartenere a quel posto, a quella città, a quella provincia di vino e di funghi, di strade di porfido e di negozianti indaffarati, di chiese dimenticate e di bandiere, torri, amici e ricordi. Ora la mamma mi aspetta, ancora per qualche ora. E stasera tornerò a Torino: e porterò con me, lo so, un po’ di nebbia , di bistecche in carpione e di profumo di Monferrato.

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