Ciao a tutti. Con questo post, concludo la trilogia dedicata alla canzone durante il Fascismo: dopo la parte incentrata sui rapporti con la musica estera, e quella sulle canzoni di propaganda, ora mi occupo delle cosiddette “Canzoni della Fronda“. Si tratta di brani che, apparentemente leggeri e disimpegnati, in realtà nascondono (o potrebbero nascondere) una presa in giro del Regime, delle sue azioni e dei suoi luogotenenti.
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Il dubbio
“Nascondono, o potrebbero nascondere“, dicevo: in fondo sta tutta lì, la debolezza dei regimi autoritari: nella loro ossessiva richiesta di assoluta dedizione, nel terrore del dissenso, e nella paura di esser fatti fessi con un sorriso. Il vecchio motto anarchico “Una risata vi seppellirà” rappresenta, per il mascellone di Predappio, uno degli incubi più ricorrenti.
Con il tipico assillo di controllare tutto e tutti, e proprio come accade a un coniuge geloso, se vuoi trovare, trovi: e figurati se non trovi segni di dissenso anche nelle canzoni più leggere! Questo gruppo di canzoni è stato definito “Canzoni della Fronda“: un insieme tutt’altro che omogeneo, in cui si trovano motivetti evidentemente impertinenti, ed altri che solo la paranoia del potere può ritenere tali.
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Il dileggio dei potenti: calvi, goffi e vanesi
Il primo “attacco” a Benito arriva fra il 1936 e il ’37 da quel gran musicista di Gorni Kramer: un artista, a onta delle apparenze, italianissimo, essendo “Gorni” il cognome, e “Kramer” il nome, in omaggio ad un ciclista americano. Approfittando di una momentanea pausa nell’attacco ai generi “negroidi”, Gorni scrive la famosa “Crapa pelada“: uno swing a perdifiato in cui, dietro un testo di origine dialettale del tutto innocuo, nel titolo si legge l’evidente richiamo alla testa calva più famosa d’Italia.
Il 1939 è un anno di gloria, per le Canzoni della Fronda. Esce infatti “Maramao perchè sei morto“, con testo ad opera di Mario Panzeri: canzonetta allegra che si attira l’attenzione dei censori quando alcuni studenti affiggono alcuni versi della canzone ai piedi dell’erigendo monumento funebre del gerarca Costanzo Ciano, consuocero del Duce. Maramao come Ciano?: nulla, nel testo, lo lascia intendere apertamente: ma, si sa, la paranoia è abilissima a inventarsi strane connessioni… Connessioni che, in questo caso, potrebbero comunque esserci: il refrain ha infatti radici popolaresche molto remote e sovente a scherno dei potenti, tanto che lo usò pure il poeta romanesco Giuseppe Belli per “commemorare” la morte di Pio VIII! Un chiaro caso, dicono quelli bravi, di “eterogenesi dei fini”.
Sempre nel ’39, e sempre dalla penna di Panzeri, esce uno dei capisaldi delle Canzoni della Fronda: “Pippo non lo sa“. Chi mai potrebbe essere, sospettano i censori, il “Pippo” che “quando passa ride tutta la città“, e che “si crede bello come un Apollo, e saltella come un pollo“, se non il gerarca Achille Starace, famoso per le divise gallonate, il portamento impettito e la prosopopea al limite del ridicolo? Quello stesso Starace che fu l’ideatore della “fascistizzazione” delle genti, con tanto di “sabato fascista”, “saluto romano”, il “voi” e le follie linguistiche di cui ho parlato nel primo post. Se persino il censore sospettò una sovrapposizione fra il buffo Pippo e il tronfio gerarca, è perché evidentemente tanto rispettato Starace non era: tanto che persino Mussolini, a un certo punto, lo mise da parte. E invece, di nuovo, no: Panzeri, anni dopo, conferma Pippo non era lui, ma il maestro musicale Pippo Barzizza, con cui Kramer aveva avuto un diverbio!
Ultimo, ma chiarissimo, caso di Canzone della Fronda, è la popolare marcetta “Il tamburo della banda d’Affori” (1942), con testo di… Panzeri, il gran birichino! Le allusioni, questa volta, sono chiarissime: “la banda d’Affori […] cinquecento cinquanta pifferi” rievoca, in modo palese, i 550 componenti della Camera dei Fasci: il suo Duce è “il tamburo principale” il capobanda che ha “i bottoni d’or, che rubacuor!” ma che, grezzo come pochi, “confonde il Trovator con la Semiramide“; e il corteo “coi bastoni a penzolon” richiama le squadracce armate di manganello.
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Paranoia!
E’ scoppiata, intanto, la guerra: il primo a parlarne, in modo ridanciano ma velato, è Renato Rascel, nella sua “E’ scoppiata la bufera” (1939). Tutto inizia pochi mesi prima, quando Rascel incontra Italo Balbo: alla domanda se l’Italia sarebbe entrata in guerra a fianco dei tedeschi, il famoso aviatore risponde con un perentorio “se l’Italia fa la guerra con Hitler io mi taglio i cosiddetti!“. E invece… Allora, non resta che scrivere la buffa canzone, che almeno prova a sdrammatizzare la tragedia in arrivo: “L’acqua scende e bagna tutti, siano belli siano brutti […] Sembra che uno glielo avesse detto, e invece non glielo aveva detto che poi anche se glielo avesse detto quello lì non ci sentiva“.
Nel ’40 arriva la proibizione di ballare in pubblico: ma la radio c’è, eccome. La psicosi contro il dissenso aumenta, e tocca anche brani che solo per inezie possono esser considerate Canzoni della Fronda. “Signora illusione” è censurata per il verso “illusione, dolce chimera sei tu”, che stride con l’imperativo “Vincere: e vinceremo!” del Duce. “Abbassa la tua radio“ è sospettata di invitare all’ascolto di Radio Londra; “Caro papà” e “Lilì Marleen” sono invece troppo piagnone e malinconiche, e non credono nella vittoria. Non sono pochi, poi, i casi di persone denunciate mentre, rivolte al ritratto del Duce, declamano i versi di “Un’ora sola ti vorrei“: “Un’ora sola ti vorrei, per dirti quello che non sai” 🙂 E così via…
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La sconfitta
Arriva l’8 Settembre (“anche il 9, il 10…” dice Abatantuono in “Mediterraneo”), l’Italia si spacca in due, e il vento cambia. Se ne accorgono anche i militi della Repubblica Sociale, che accusano il voltagabbana della popolazione nella triste ma sincera “Le donne non ci vogliono più bene“: “Le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera; hanno detto che siamo da catene, hanno detto che siamo da galera. L’amore coi fascisti non conviene“. Uno scatto d’orgoglio militaresco (“La Signora Morte fa la civetta in mezzo alla battaglia, sotto, ragazzi, facciamole la corte!“) non basta certo a sopire la delusione per la sconfitta, ormai (e per fortuna!) inevitabile.
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E poi…
E non è che, finito il Fascismo, finisca la censura! Nella democratica e democristiana Italia, la censura sarà scrupolosamente applicata in senso “morale” e “cattolico” per almeno altri 40 anni: i casi di “Vecchio frac” di Modugno, “4 Marzo 1943” di Dalla, “Addio a Lugano” di Gori, “Dio è morto” di Guccini e “Io se fossi Dio” di Gaber sono solo i più noti di una lunga sequenza di piccole, grandi e assurde pruderie.
Il Jazz, ovviamente, torna, e alla grande: fa quasi ridere che uno dei più noti pianisti jazz italiani del dopoguerra sia Romano Mussolini… Sì, proprio il figlio di Lui e di Donna Rachele: in barba al disprezzo del padre per la “musica negroide”, si dedica al Jazz fin dagli anni Trenta, e dopo la Guerra riprende a suonare, nascondendo dietro lo pseudonimo di Romano Full l’ingombrante passato. Per la cronaca, Romano è il padre di Alessandra Mussolini: parlamentare ondivaga di area destrorsa, soubrette e pure titolare di un album, nel lontano 1982, ormai rarissimo… Diciamo che non rientra nei miei gusti, và, e chiudiamola lì!
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Ecco, ho finito. Spero di avervi dato qualche notizia utile, e aver fornito qualche spunto di riflessione. Se interessa fatemi sapere, che notizie e cose da dire sulla censura musicale ce n’è, eccome! E non solo, ovviamente, del Ventennio!
Bravo Francesco, bellissima questa serie!
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Molto interessante. Molte canzoni sono sopravvissute bene.
Buona giornata
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Pippo e Maramao me le cantava la mamma da piccolo…
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