In montagna, nel porto delle nebbie

Ciò che conta è che sia stata una fantastica giornata“: questo devo ribadire quando mi ricordo che le ferie “grosse” del 2021 se ne sono già andate, e che sono di nuovo sepolto da scartoffie, perversioni burocratiche e rotture di balle. Sì, sono state belle vacanze: la prima settimana l’abbiamo passata nella verde, serena e fresca Val d’Ultimo, a due passi da Merano, fra laghetti, boschi, malghe e prati; la seconda, decisamente più piovosa, ci ha invece visto visitare la Val di Zoldo (Belluno), godendo di polenta, schiz e pastin (formaggio vaccino il primo, e l’impasto del salame non insaccato il secondo, entrambi serviti piastrati), e degli spettacolari scorci dei monti Pelmo e Civetta…

Ma, nonostante tutto questo catalogo da cartolina, il momento che più mi resta nel cuore ha il colore bigio di un cielo zuppo di pioggia, l’odore di cibo appena cucinato, e il calore di un the fumante. Sì: un pomeriggio, di ritorno da un giro in auto, ci inerpichiamo per il passo Duran, che collega la valle Agordina con Zoldo Alto: dopo un po’ di salita arriviamo in quota, a 1605 metri, i tornanti si spianano, e inizia a piovere e tirare aria fredda… in pieno Luglio. Sulla sinistra, a bordo strada, c’è un rifugio: ci mettiamo la giacca a vento, velocemente saliamo i gradini della scala esterna, ed entriamo.

Dentro, qualche tavolino, il piccolo bancone del bar, e un forte odore di brasato. La ragazza ci fa accomodare, e ordiniamo un the. Ci guardiamo attorno. Il locale ha il soffitto basso, ma niente travi a vista o paccottiglia da turisti: tre vetrate spartane con i telai di metallo, sottolineate dal perlinato e da panchette e tavolini in legno, con un tovagliato semplice semplice. A una cliente, forse una giovane tedesca, che legge un libro in solitudine, è servita una fetta di torta. Da una bici, zuppo e infreddolito, scende uno spagnolo, entra e ordina un dolce: è intollerante al glutine, e viene accontentato.

Nel mentre arriva la barista: una brocca con l’acqua bollente, e una manciata di bustine di the, spaiate. Nel tavolo d’angolo, notiamo una coppia di mezza età: lui è un bell’uomo dai capelli grigi, lei è bionda, indossano una tenuta da escursione, e prendono appunti. A un certo punto lui ci apostrofa, con chiaro accento alemanno: “Siete italiani?“. E iniziamo a chiacchierare.

Loro – ci spiegano, con una bella padronanza della lingua – sono svizzeri, ma vivono a Amburgo, e sono qui in vacanza. Sono curiosi, ci chiedono da dove veniamo, cosa abbiamo visto, quanto stiamo. E quando dico che abbiamo anche visitato la piccola pinacoteca di Belluno gli si illuminano gli occhi: “Che pittori ci sono?“. Me la cavo con un generico “artisti locali”, e mi vergogno di non averne memorizzato nemmeno uno: a quanto pare, come tutti gli stranieri ci invidiano ogni tela, e io non so manco spiccicare un nome. Alla faccia dell’orgoglio patrio.

Proviamo a parlar bene della “nostra” Torino, ma a quanto pare la sua rete stradale a scacchiera non li convince: “non sembra italiana“, sostengono. Ma a Torino sono comunque stati, nei loro giri montani sulle tracce del GTA. Intanto è arrivato un nuovo ospite, con tanto di zaino e cerata: “Il letto è nella camerata, l’acqua calda è compresa nel prezzo; entro le 17 raccogliamo l’ordine per la cena, e alle 19 si mangia; la colazione è alle 6. Puoi lasciare gli scarponi nell’anticamera“.

Io, per tirarmela un po’, e rinfrescare le mie memorie musicali, mi rivolgo alla coppia e chiedo se conoscono i locali dove i giovani Beatles andarono a farsi le ossa nei primi anni Sessanta…Si, nel quartiere di St. Pauli“, rispondono. Ma subito switchano sul discorso calcistico, spiegandomi che Amburgo ha due squadre: l’Amburgo, appunto, la squadra “borghese”, e il St. Pauli, quella “proletaria”… Ma ormai sono entrambe retrocesse in Seconda Divisione. E io che, juventino di 15 anni, fui stuprato dal goal di Magath in quella cazzo di finale europea del 1983, un po’ ci godo.

E, mentre parlo del più e del meno, e sorseggio il the, mi accorgo di star bene. Fuori è brutto e freddo, qua non è un granché, è vero, ma ci starei per delle ore. Ho tutto quel che mi serve: la mia compagna; una bevanda calda; l’odore del brasato che mi impregna la felpa e mi fa sognare una bella polenta; gente tranquilla che legge, beve, fa silenziosi programmi per l’indomani; o che arriva, prende un caffè, si riscalda e riparte; tre amiche che servono al bar, preparano torte e organizzano la serata. Mi sento come nel porto delle nebbie di certi film: in un luogo tagliato fuori dal mondo, sospeso, senza tempo e memoria, dove sentire i minuti che gocciolano via, con la pioggia, e nessuno sa chi sono. E il resto può anche andare alla malora.

Qui sembra facile, vivere. Dormire su un tavolaccio, svegliarsi col buio e un caffelatte bollente, e vedere le nuvole aprirsi. E poi rimanere. Guadagnarsi la permanenza dando una mano in cucina e con qualche lavoretto, preparare la camerata, fare la spesa, organizzare la dispensa, diventare uno di loro: e non tornare più.

Ma figurati. Non ho fatto in tempo a immaginarmelo che dalla bocca mi esce un “Dobbiamo andare“. Salutiamo gli svizzeri-amburghesi, paghiamo, e in auto torniamo in baita. Domani sarà una giornata serena, leggo: faremo un bel giro a piedi, mangeremo in qualche malga, e ci riposeremo. Ma, in un angolo della mia mente, balugina ancora quella sensazione: che una vita diversa sia possibile, e che possa bastare davvero poco. Non so se questo capiterà mai, probabilmente no: ma già ho intravisto qualcosa.

E’ il regalo più bello di queste settimane.

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