Do wop de wadda bom-bom
1954, Ottobre: i Penguins, di New York, per il loro debutto hanno scelto “Hey Señorita”, un brillante rhythm’n’blues vocale: ma succede una cosa strana. Il pubblico radiofonico, incoraggiato dal disc jockey Alan Freed, inizia a richiedere con maggiore insistenza la B-side, “Earth Angel”. Canzone quanto mai sconcertante: il testo – basato su un’ipnotica ripetizione del titolo – non ha alcun spessore, il pianista non fa altro che ripetere lo stesso accordo a tempo di terzina, il solista ha un timbro sdolcinato e frivolo, e i non-sense onomatopeici muovono al ridicolo. La critica insorge: ma nulla arresta l’ascesa del disco nelle classifiche. Attenzione, in entrambe le classifiche (primo posto nella chart rhythm’n’blues e ottavo in quella pop).
E non è un caso isolato. Scritta dai Chords di New York, e scelta come B-side della cover “Cross Over The Bridge” (Marzo 1954), “Sh-Boom” sale a sorpresa al secondo posto sia della graduatoria rhythm’n’blues che di quella pop; i Crows, quartetto vocale di Harlem, investono tutto sul lento “I Love You So”, ma è il retro, la brillante e autografa “Gee”, a scalare le classifiche; identica sorte tocca ai Charms – la cui “Hearts of Stone” (1954) monopolizza la hit parade afroamericana, e approda nella classifica pop nella versione delle Fontaine Sisters – e agli Spaniels, che raggiungono la notorietà “bicolore” con “Baby It’s You” (1953) e con “Goodnite Sweetheart, Goodnite” (1954) [1]. Il segnale è chiaro: esiste una canzone che i produttori non “vedono”, ma che – messa alla prova dei fatti – è immediatamente portata al successo; ed esiste un nuovo mercato trasversale, segmentato non più su base razziale, ma su criteri anagrafici.
Nel giro di pochi mesi le hit parade sono invase da decine di brani-fotocopia: beat ballabile, melodie essenziali, testi leziosi e inoffensivi, armonie vocali pulite e buffe. I commentatori sono sbalorditi, ma la marea non si arresta: tanto da fare del “modello Earth Angel” il genere più redditizio e popolare del quinquennio 1955-’60, e di “Earth Angel” lo spartiacque di un’epoca, e di un genere. Anche alcuni antecedenti avevano prefigurato – almeno in alcuni elementi – questa invenzione, è solo dopo il 1954 che si può propriamente iniziare a parlare di doo-wop.
Il doo-wop si sviluppa a inizio decennio nelle comunità afroamericane [2] di Los Angeles e delle grandi città della East Coast, e raggiunge la massima visibilità e successo nel periodo 1955-’59. In realtà, la prima volta che la stampa (l’autorevole quotidiano afroamericano “Chicago Defender”) usa “doo-wop” per riferirsi a uno specifico genere musicale è il 1961: epoca in cui questo stile sta già vivendo il suo primo revival. Ma cosa significa, esattamente, “Doo-wop”?
Come insegnano i Mills Brothers, è possibile riprodurre il suono del basso con vocalizzi come “bom-bom-bom” o “doomph”, mentre “shang-a-lang” evoca le pennate della chitarra, e “doooo-wop-wop” fa il verso alla pulsazione delle sezioni fiati [3]. Ecco da dove arriva “doo-wop”: dalla traslitterazione di un’onomatopea usata dai complessi vocali degli anni Trenta.
I gruppi doo-wop, infatti, sono esclusivamente vocali (se compaiono, gli strumenti non hanno mai funzione di primo piano), contano da tre a sei cantanti, e lo spettro vocale comprende un solista, il primo tenore (in falsetto), il secondo tenore (o il baritono), e un basso; al contrario del barbershop, in cui le armonie sono sempre a quattro voci e simultanee, qui c’è una netta distinzione fra il solista (il leader) e il coro di accompagnamento.
Tutto è piacevole, semplice, scorrevole: il beat è essenziale, con tempi che vanno dal moderato al rapido, la struttura armonica è basata sulla tipica progressione di I, IV e V grado, e le melodie sono elementari e accattivanti. I testi seguono i due filoni giovanili per eccellenza: le storie d’amore romantiche e svenevoli, o l’umorismo surreale del novelty.
Come per i quartetti rhythm’n’gospel, i ragazzi che fondano i gruppi vocali della nuova ondata hanno tutti seguito più o meno il solito tragitto, che dai banchi di una chiesa li ha portati – attraverso le canzoni provate agli angoli delle strade o nelle stazioni della metro – in qualche teatro o radio di quartiere: posti in cui sono stati notati dagli scaltri talent scout di una indie, e portati in sala di incisione. La salita verso il successo è, in molti casi, improvvisa e imprevedibile: senza una storia alle spalle o vero spessore, questi ragazzi dipendono totalmente dalle scelte dei manager, dalla buona idea di un autore professionista, o da un’intuizione estemporanea di un componente… Fra i molti complessi nati in questi anni, solo pochi hanno una preparazione e un’identità artistica tale da garantire una carriera lunga e autonoma, o l’esperienza per non farsi truffare da contratti-capestro: il destino della maggioranza dei gruppi doo-wop prefigura quello delle boy-band degli anni Sessanta, fatto di successi istantanei, fulminee eclissi di fama, raggiri contrattuali, smanie di protagonismo e liti furibonde.
Il doo-wop è un fenomeno moderno e consumistico per antonomasia, basato sul divismo: da un lato il leader che, all’apogeo della carriera, lascia il gruppo (con il copyright del catalogo sotto il braccio) per tentare l’avventura solistica; dall’altra i comprimari, con poca o nessuna fama personale, sostituiti da nuovi mestieranti a seconda della bisogna… Qualcuno tornerà al punto di partenza (il gospel), qualcun altro – sempre che sia sopravvissuto agli anni Cinquanta – tenterà la redditizia e più moderna strada del Soul: ma la maggioranza si perderà per strada.
Ma, per quel che qui più conta, il doo-wop si può considerare, a tutti gli effetti, il primo fenomeno di stampo giovanile partorito della musica nera: e, quindi, la prima manifestazione collocabile nel complesso e vasto mondo del rock’n’roll.
[1] Gli Spaniels usano due microfoni: uno per il solista, l’altro per il resto del gruppo. Ciò, secondo alcuni storici, fa del vocalist “Pookie” Hudson uno dei primi leader di quartetto vocale a mostrarsi – ed esser percepito – come tale.
[2] Nel doo-wop hanno una loro parte, seppur di secondo piano, altre etnie emarginate che, come quella nera, trovano nelle strade e nelle chiese le loro accademie musicali. I portoricani hanno il loro eroe in Frankie Lymon), mentre gli italo-americani di New York si distinguono grazie a Dion & The Belmonts di Dion DiMiucci, ai The Capris (“Morse Code of Love”), e a Vito & The Salutions (“Unchained Melody”). Esistono anche quartetti doo-wop misti, i cosiddetti “racially integrated groups”, come i Del-Vikings e i Crests: gruppi dalla vita difficile, e che non godono della simpatia del sistema.
[3] Lo scat “doo-wop” compare in questa esatta forma in “Good Lovin’” dei Clovers (1953) come semplice vocalizzo di sottofondo: sono invece i Turbans, nella loro “When you dance” (1955) a usare per primi le sillabe “doo-wop” come elemento integrante del testo.
Articolo tratto da “Il Grande Viaggio” – Vol. 2 – Parte Settima