“Paolo Conte, via con me” – Il film

…Come una farfalla, una nostalgia

Una Topolino amaranto, una stradina di terra battuta fra le vigne del Monferrato: inizia così il docu-film su Paolo Conte. Non ho ancora sentito una nota, e subito mi commuovo: mannaggia alla musica, diceva Ron tanti anni fa. Perché la musica non è solo questione di note: ma, soprattutto, di ricordi, emozioni, suggestioni, sentimento, parole. E qui c’è tutto.

Paolo è di Asti. Come me: lo annuso da sempre, e l’ho incrociato per strada, in piazza San Secondo, mentre mangiavo un trancio di pizza (e lui, inappuntabile, nel sua dolcevita). E come mio padre, che non c’è più da tanto, ma che ha conosciuto Paolo in diverse occasioni, quando era ancora un avvocato con l’hobby della canzone, e non una star: e cui lo stesso Paolo dedicò un augurio poche ore prima che se ne andasse per sempre, durante un concerto di beneficenza del 1983 che proprio lui, papà, avrebbe dovuto presentare. E, ovviamente, come mia madre… Che è nata lo stesso anno di Paolo, e che come lui vedo invecchiare giorno dopo giorno, e nelle loro rughe scorgo un presente diventato ormai passato: ma sempre vivo, luccicante, lucido come una ciliegia.

Il film va: fra interviste di oggi e di ieri, filmati di repertorio e chicche mai viste (una per tutti, un vecchio special di Pupi Avati, “Paolo il caldo”), omaggi sinceri, ricordi, aneddoti… E soprattutto loro, le canzoni: il regista, Giorgio Verdelli, per (quasi) ogni canzone accosta esecuzioni live prese da tempi e luoghi diversi, e le ricompone in un’unica traccia. E non importa se “Genova per noi” inizia con un Lauzi in bianco e nero, e finisce nel 1988 ad Amsterdam, con un primo piano della faccia di gomma di Paolo che mastica aforismi e kazoo: è sempre la stessa, vista attraverso il caleidoscopio del tempo che passa, e della musica che resta.

Certo che Conte, dai primi filmati del 1975 a oggi, è invecchiato: e fa tenerezza vedere la sua camminata rigida, gli occhiali da sole per proteggerne gli occhi rossi e stanchi, e il tenero abbraccio al coetaneo Arbore, pieno di cerone e appesantito anche lui… Ma quanta vita, quante note, quanta arte: come dice Jovanotti, “Dovrei vivere cento vite per riuscire a scrivere una frase come “abbaia la campagna” (bravo, Lorenzo!). E lui, in una vita, di frasi così ne ha scritte a decine: ed è bello sentire Bollani spiegare il doppio senso di “Le donne odiavano il jazz, non si capisce il motivo” e – mentre il film e la musica vanno – trovarsi a rimuginare su deliziose crittografie enigmistiche come “calma tigrata“, “intelligenza degli elettricisti“, “caramelle alaskane“, “verde milonga“, “‘na scudisciata turcomanna a mezza luna“… Ah, che rebus, dice il poeta.

E arrivano il fratello Giorgio, Patrice Leconte, Capossela, De Gregori, Peppe Servillo, un Vincenzo Mollica tremante e quasi cieco; e, ancora, Adriano Celentano, Mina, Jannacci, Jane Birkin, Lauzi, la Caselli, una commovente Monica Vitti… E mi coglie, di nuovo, la sensazione del tempo trascorso, di cosa avevamo nelle case e nelle radio allora, e di cosa c’è adesso. Datemi pure del retrogrado, non me ne frega un cazzo: trovo più verità, arte e vita in una strofa di “Diavolo Rosso” che in tutti i Fedez di oggi.

Il tempo che passa, di nuovo: niente da fare, trascorro i cento minuti del film attraversato da questa emozione. Come quando vedo il Benigni istituzionale di oggi, lanciato in una di quelle tirate retoriche di solito riservate alla Costituzione, all’Inno, a Dante; e, subito dopo, arriva il Roberto di una volta che, in un Club Tenco del 1981, irrompe sul palco armato di maracas e impudenza, e trasforma in sarabanda una calibrata performance di “Sudamerica”.

Parlando di “Genova per noi”, Conte mette in contrapposizione “l’acqua orizzontale” di Genova (il mare) con “l’acqua verticale” del Piemonte (la pioggia), e lo stupore dei contadini al cospetto di quel “mare scuro che si muove, e anche di notte non sta fermo mai“:  robe d’altri tempi, quando in autunno pioveva tanto e c’era spesso la nebbia, e ai Santi le signore passavano alla pelliccia, e gli uomini al paltò. Ora l’autunno è spesso asciutto, una pigra coda dell’estate: ma vaglielo a dire a Paolo, che dietro una curva aspetta ancora Bartali, e si commuove al pensiero del clarino di legno di Johnny Dodds…

E piano piano si srotola di questo film la pellicola, fra un ieri vecchio di 50 anni, e un oggi davvero vicino. Come dimenticare i flashmob dai balconi nel recentissimo lockdown, con “Azzurro” a far da colonna sonora? E quante canzoni ha scritto, prima che per sé, per altri… L’intenzione era riempire un campionario, da cui cantanti più bravi potessero attingere… Eppure come canta lui le sue canzoni, non lo fa nessuno: nelle sue mani “Genova per noi”, “Onda su onda”, “Azzurro” perdono quel sentore di balera, di strapaese, di gita in corriera impresso da Lauzi e Celentano, e sono riportate a casa. I bassi che zompettano sulla tastiera, il ritmo che accelera e rallenta, la voce roca: altra roba, altra musica. Epperò… Come diceva il mio amico Enio, c’è un’eccezione: “Messico e nuvole”. E lo confermo: l’epilettica performance di Jannacci è davvero insuperabile. Vedere per credere.

La Topolino, nel suo peregrinare, si ferma alla Sala Pastrone di Asti: un piccolo cinema d’essai ipogeo, proprio sotto il Teatro Alfieri. E Conte è lì, da solo, al buio, davanti a una vecchia pellicola in cui Duke Ellington e il suo trombettista Bubber Miley accennano un pezzo. E’ pensieroso, sornione, commosso: poi esce. E la Topolino continua a correre, nella mia mente, mentre scorrono i titoli di coda: sono straziato dall’emozione, perché nelle canzoni di Paolo ritrovo sempre me stesso. Ma non il Francesco seduto davanti al computer: bensì quel Chicco in cui si agitano e vibrano i cromosomi del Monferrato, di questo nordovest bardato di stelle, nebbia e pioggia, degli avventurieri falliti, degli sparring partner imbolsiti, della paura del mare e delle gite fuori porta. E in quella Topolino immagino mio padre e mia madre, alla domenica, che se ne vanno per le colline, cercando l’ombra di un pergolato d’uva fragola, e un posto dove stare in pace. E me ne esco così, pensieroso anch’io: “col collo del paltò tirato su nel vento di Torino“.

 

Abbiamo parlato di:

  • Paolo Conte, via con me” (2020, Italia, 100 min)

Regia: Giorgio Verdelli

Interpreti principali: Paolo Conte, Enzo Jannacci, Vincenzo Mollica, Pupi Avati, Caterina Caselli, Roberto Benigni, Peppe Servillo, Isabella Rossellini

Voce narrante: Luca Zingaretti

Musiche: Paolo Conte

7 pensieri riguardo ““Paolo Conte, via con me” – Il film

  1. Non ho visto il film ma ho alcuni dischi di questo gigante romantico, sentimentale, inusuale e tra le righe, quasi forse come un inciampo, musicista di altissimo rango.
    Il genere musicale di Paolo Conte non è il mio (visto che mi appassionano più i King Crimson etc. etc.) ma è inequivocabile la sua grandezza paragonabile a Fabrizio De André e le sue canzoni sono diventate dei punti di riferimento della nostra cultura musicale.
    Lo ricordo sempre con una certa nostalgia come d’altronde solo lui riesce a trasmettere.
    Bel post ! Speriamo che lo leggano in molti !
    Ciao !

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      1. Guarda, meglio pochi ma sinceri e veri ! C’è un tizio di cui non faccio il nome ma che potrai tranquillamente trovare su WordPress, che ha un miliardo di followers ma è un anonimo assoluto ! Quando ho insistito per sapere qualcosa di lui, non mi ha degnato nemmeno di risposta !
        Per me ha chiuso anche se tantissimi lo seguono !
        Nascondersi nell’anonimato in WordPress lo trovo davvero deprimente !

        Ripeto: meglio pochi ma veri !

        Ciao
        Stefano.

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