Nel Dicembre ’68 esce “S.F. Sorrow”, il quarto album degli inglesi Pretty Things, nato dalla fantasia del cantante e chitarrista Phil May. La copertina è un abbozzo figurativo in tenui tinte pastello, il sound è poco curato, i gadget inesistenti, la fortuna commerciale decisamente secondaria… Un disco semplice e povero, quindi. Eppure, ha una cosa che il più fortunato e illustre vinile dei Beatles – “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” – non possiede, e cui mette una pezza: una storia coerente, e una narrazione continua. Attraverso le 13 canzoni – e le note di copertina – veniamo a conoscenza del protagonista della storia, Sebastian F. Sorrow: la nascita (“S.F. Sorrow is Born”), la scoperta dell’amore (“Bracelets of Fingers”), l’abbandono (“She Says Good Morning”), la guerra (“Private Sorrow”), e la depressione… Un allucinato viaggio interiore (“The Journey”) apre la porta ad alcune sconcertanti rivelazioni (“I See You” e “Old Man Going”), e conduce all’inesorabile e malinconico finale: “Loneliest Person”, lo svelamento di un destino di solitudine e isolamento.Poco dopo l’uscita dell’album, la band va in scena al Middle Earth Club di Londra: suona il disco tutto d’un fiato, tentando di riprodurre alla bell’è meglio gli effetti sonori di studio, e dando sostanza teatrale alla triste storia di S.F Sorrow. A impersonare il protagonista è chiamato il percussionista John “Twink” Alder, truccato in volto con un inquietante fondotinta bianco.
“S.F. Sorrow” rappresenta il successivo stadio di sviluppo del concept-album narrativo: la Rock Opera. Per Rock Opera si intende una suite musicale in stile rock dotata di struttura narrativa organica, e che si presta a essere riprodotta in forma scenica e/o cinematografica. Suo elemento caratteristico è la tessitura drammaturgica: i brani non soltanto sono legati da un tema o un argomento comune (come avviene nel concept album), ma attraverso testi, sound, melodie e effetti sonori collaborano a definire – o evocare – ambienti, personaggi e azioni.
Se il disco dei Pretty Things può essere legittimamente considerato il primo vagito di questa forma espressiva [1], tocca agli Who, con “Tommy”, consegnare alla storia l’Opera Rock più famosa e completa del tempo. Uscito a Maggio del 1969, il doppio album ha come protagonista un ragazzo divenuto sordo, cieco e muto a seguito di uno shock subito nell’infanzia, rafforzato dagli abusi sessuali dello zio e dal bullismo del cugino. I ripetuti tentativi di riportarlo alla normalità (fra cui, allusivamente, spicca la “terapia” allucinogena spacciata da una zingara, la “Acid Queen”) falliscono uno dopo l’altro, fino a quando Tommy scopre – grazie alla sua capacita di percepire le vibrazioni – di avere un talento straordinario per il flipper (“Pinball Wizard”). Ora Tommy è venerato come una sorta di messia, e come tale può curare miracolosamente qualunque malattia… Ma non se stesso. Alla fine, tramite la simbolica e dolorosa frattura di uno specchio, Tommy riacquista i sensi perduti (“I’m Free”): sarà abbandonato da suoi seguaci (“We’re Not Gonna Take It”), ma potrà scrollarsi da dosso paure e limiti, diventando finalmente libero.
Tutto, in questo disco, celebra il suo tempo e i suoi miti: il percorso cristologico di passione e redenzione, il padre in guerra, i traumi infantili, le droghe, la musica come “vibrazione positiva”, la cieca adorazione delle folle e la difficoltà di essere una star. Dove “Tommy” fallisce è nella tessitura sonora: un arrangiamento pesante ed elaborato, con moltissime sovraincisioni e lo stucchevole ricorso a strumentazioni eccentriche (gong, timpani, tromba, corno francese). Lontani dall’aggressività e dall’essenzialità del primo periodo, gli Who scivolano nel melodrammatico e nel pretenzioso, come dimostra la complessa “Overture”, sorta di prologo-collage sinfoneggiante che inanella brevi estratti dai temi principali dell’album.

Per un anno, la full performance di “Tommy” occupa la scaletta di tutti i live del periodo, compresa la famosa esibizione di Woodstock: ed è, letteralmente, un’altra musica, con i quattro Who sugli scudi, liberi di scatenarsi con grinta, furia e calore, finalmente affrancati dagli orpelli orchestrali del disco. Lo show del 14 Dicembre al Coliseum Theatre è filmato per una possibile riduzione cinematografica: ma per vedere le avventure di Tommy sul grande schermo occorre attendere il 1975, e l’omonimo film di Ken Russel. Una pellicola colorata, immaginifica, vitale e gagliarda che riproduce in sequenza le canzoni del doppio album e dove – come in un musical – si alternano brevi parte recitate e segmenti cantati (fra gli attori troviamo gli stessi Who, Jack Nicholson, Elton John, Tina Turner ed Eric Clapton).
“Sgt. Pepper”, “S.F. Sorrow” e “Tommy” simboleggiano tre modi differenti di dare concretezza, nel rock, a un progetto drammaturgico. Il primo ha dalla sua una costruzione multimediale quasi perfetta, ma è lacunoso dal punto di vista della coerenza narrativa; il secondo presenta una storia ben strutturata, ma per adempiere al compito deve ricorrere a brevi racconti, stampati sulla copertina dell’album, che integrano i testi dei singoli brani; il terzo, infine, è un racconto autosufficiente, in cui per seguire la storia di Tommy basta ascoltare le canzoni e le loro liriche.
L’opera rock nasce sempre come disco: la rappresentazione in forma scenica (teatrale o cinematografica) è un passo ulteriore, a volte programmato sin dall’inizio (sarà il caso del più tardo “The Wall” dei Pink Floyd), altre volte solo ipotizzato, e altre ancora nemmeno sognato… Ma, proprio per la forte vena narrativa insita nell’album di partenza, sempre implicito e possibile.
Quando i Beatles progettano “Sgt. Pepper”, ad esempio, non pensano nemmeno per un attimo di portare in scena la storia del Sergente Pepe: eppure, nel 1978, senza mai chiamare in causa gli autori – e ignorando i già scarsi spunti narrativi del disco – sarà realizzato il film omonimo per la regia di Michael Schultz, con attori e comparse del calibro dei Bee Gees, Steve Martin, Aerosmith, Donald Pleasence e Alice Cooper. Gli Who, invece, sono coinvolti fino in fondo dal progetto filmico, tanto da recitare in ruoli da protagonisti. Meno fortuna ha il lavoro dei Pretty Things: poco apprezzato dal pubblico per la sua vena triste e depressiva, ignorato dagli addetti ai lavori, è però l’unico dei tre che preveda – e realizzi – una rappresentazione scenica, pur se embrionale.
In questi anni la moda del concept album e dell’Opera Rock diventa una specie di ossessione per chiunque aspiri a crescere nella considerazione della critica. Fra gli esempi più noti, e di valore, citiamo “Days of Future Passed” dei Moody Blues, “Arthur (Or the Decline and Fall of the British Empire)” dei Kinks, “200 Motels” di Zappa, “Thick As a Brick” dei Jethro Tull, “Ziggy Stardust” di David Bowie, “Quadrophenia” (ancora degli Who), e “The Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd [2].
La rock opera rappresenta una delle avventure più interessanti e controverse della storia del rock, e ne incarna perfettamente desideri e limiti, buone idee e perversioni: il senso d’inferiorità verso l’accademia, il piacere di sperimentare, la ricerca di una sintonia con il pubblico dei giovani e con i loro problemi, la caduta in un’eccessiva seriosità e retorica, l’apertura alla multimedialità, e il contatto fatale con le tentazioni sinfoniche… Tutto ciò, insomma, che, nel bene e nel male, è sinonimo di Anni Settanta.
[1] “S.F. Sorrow” è preceduto, nell’Ottobre del ’67, da “The Story of Simon Simopath” degli inglesi Nirvana (ovviamente solo omonimi dei più famosi divi grunge degli anni Novanta): un disco minore che, con toni a cavallo fra psichedelia e cabaret, e attraverso centauri, divinità ed elementi fantasy, racconta la vita del protagonista Simon. Una rock opera potenziale, ma davvero troppo esile (e poco famosa!) per suscitare entusiasmi critici o interessi imprenditoriali.
[2] Una delle prime Opere Rock in assoluto è ideata dell’italiano Tito Schipa Jr, figlio del noto tenore: “Orfeo 9” (che si rifà al mito di Orfeo ed Euridice) è rappresentata nel Gennaio 1970 al Teatro Sistina di Roma (con l’intervento degli allora sconosciuti Loredana Bertè e Renato Zero), cui segue un doppio album e un film, sotto la direzione musicale di Bill Conti.
Articolo tratto da “Il Grande Viaggio” – Vol. 2 – Parte Decima
Abbiamo parlato di:
Beatles – “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” (EMI, 26/05/1967)
Nirvana – “The Story of Simon Simopath” (Island, Ottobre 1967)
Pretty Things – “S. F. Sorrow” (Columbia, Dicembre 1968)
The Who – “Tommy” (Decca, 23/05/1969)
Tito Schipa Jr – “Orfeo 9” (prima rappresentazione 23/01/1970, disco 1972)