Tre pensieri mi frullano in testa, in queste ore dove – tanto per cambiare – si medita, si parla e si sproloquia di Covid-19: 1. che siamo in casa, spesso da soli (e non per tutte le coppie questa è una situazione positiva); 2. che alcune attività commerciali, ci piaccia o meno, non sopravviveranno alla crisi; e 3. che sono di Asti, anche se residente a Torino, e che la mia città fra le colline – che non vedo da due mesi – mi manca molto, ma il cui ospedale ho dovuto contattare al telefono per questioni personali (e anche questo, come vedrete, c’entra).
Queste tre riflessioni hanno trovato, improvvisamente, un punto di contatto, che ha illuminato il mio pomeriggio:
Paolo Conte – La saga del “Mocambo”
Dunque, del Conte maggiore si sa più o meno tutto: astigiano, figlio di una stirpe di notai, prima di diventare uno degli chansonnièr più amati e geniali di sempre è stato un avvocato; e, come legale, si è spesso imbattuto in quelle questioni che dalle mie parti si riassumono nell’espressione “andare dal culo“: non riuscire a onorare i debiti, chiudere bottega, fallire (Ndr: l’espressione deriva da una pratica della Roma imperiale, in cui l’insolvente era costretto a sedersi su una pietra, battendo con forza il proprio sedere per tre volte, mentre era schernito dai creditori e dai passanti). Conte, appassionato enigmista, uomo dalla memoria prodigiosa e straordinario cantore della piccola provincia norditaliana, su ricordi ed esperienze come questa, ha costruito non solo una canzone, ma una piccola saga: quella del “Mocambo” appunto, un “piccolo bar” chiuso per debiti, e del proprietario, disilluso e sconfitto.
- “Sono qui con te sempre più solo“: eccolo, “quello che aveva il Mocambo, un piccolo bar“. Seduto, assieme a una moglie algida ed estranea, in un “brutto tinello marron“: folgorante metafora di una piccoloborghesia tremendamente anni Sessanta, che riecheggia le “buone cose di pessimo gusto” di memoria gozzaniana, dove non resta che stare in silenzio… E a rimuginare su una vita che ci si era costruiti a misura – condensata nel memorabile distico “sempre stato ignorante, ma sono un bell’uomo e poi so anche trattare, sono sempre elegante” (ah, ne ho conosciuti di tipi così: affabili, con troppa acqua di colonia sul viso ben rasato, il colletto a punta e la risata affabile) – ma poi andata in vacca così, un gradino dopo l’altro.
Il curatore fallimentare, che emerge improvvisamente da questo tetro quadro di desolazione, offre un caffè all’ex gestore – meravigliosa inversione di ruoli – ma è subito costretto a rintanarsi nelle ombre del salotto marron, cedendo alla malinconia.
- “La ricostruzione del Mocambo“: dopo il fallimento, la ripresa: “Il Mocambo, ecco qui, tutto in fior“. E la moglie, che dall’alto dei suo studi lo disprezzava, è sparita.
Un’austriaca ha preso il suo posto: ma nulla è davvero cambiato… Il tetro tinello, l’incomunicabilità (“io parlo male il tedesco, scusa, pardon“), e il curatore: che, di nuovo, gli offre un caffè, prima di sottomettersi alla vacuità del tutto. Non resta che bloccare un momento, dilatarlo a piacimento, e fissare l’estrema verità: il silenzio, la condivisione dell’isolamento e – come in un bar di Hopper – “scrutare la morte con i gomiti appoggiati al banco“.
- Queste due canzoni sembrano davvero le due tavolette incernierate di un dittico, separate ma interdipendenti. Lo sono liricamente (con evidenti echi di termini, espressioni e metafore), filosoficamente (la sconfitta e la paralisi), narrativamente (la fabula della prima continua, in stretto rapporto di causalità, nella seconda, con il riproporsi di personaggi e ambienti), e musicalmente (uno swing morbido e malinconico, su un tempo medio). D’altronde sono pubblicate a un solo anno di distanza, e non si fatica a credere che siano state scritte assieme… Ma col terzo capitolo lo scarto si fa più secco. “Gli impermeabili” arriva 9 anni dopo: e un’altra vita è passata.
Il Mocambo (ma che bello questo nome: che sa di quell’esotico di cartone tanto caro alla vecchia provincia italiana) è solo un flash, “serrande abbassate“, e un’ipotesi di riapertura (“devo pensarci su“), che turba appena i vecchi lividi da boxeur del gestore… Ma, fra un caffè e l’altro, piove: e l’acqua bagna gli impermeabili, senza turbare l’anima del protagonista, ora fiducioso: o, forse, semplicemente, illuso. Un tono elusivo, quasi astratto, senz’altro molto distante dai quadretti kammerspiel precedenti: nella narrazione come nella musica, ora pulsante di archi, sintetizzatori e batteria elettronica. Canzone – e qui mi ricollego a Asti e alle mie vicende – che il centralino dell’Ospedale Cardinal Massaia ha adottato come musica d’attesa: e che negli scorsi giorni mi è capitato di ascoltare più volte.
- Passano altri vent’anni… E chi se lo aspettava più, il gestore fallito? Ma eccolo qui, seduto al solito nel suo tinello marron: piove, passi sul selciato, qualcuno suona, forse sale le scale, sta per bussare… E la coppia silente – una francese, Jannine, ha preso il posto dell’austriaca – di colpo si riprende dal torpore: forza, “prepara il caffè, nascondi i patin” (le pattine, altro simbolo piccolo-borghese, che fa il paio con i mobili implasticati della “sala buona”), tornano i vecchi tempi! E no, n
ulla di tutto ciò: era solo lo scherzo di qualche monello… Ma tanto è bastato a risvegliare nei coniugi la “Nostalgia del Mocambo“: uno sconfinato ritmo di rumba “che se ne va per la città“. Come un sogno, uno spiritello dispettoso, un ricordo guizzante: ma che, sfuggito in qualche vicolo, lascia il sapore di un passato così lontano da non far più male, e il piacere di un buon caffè. Si, quello preparato per un ospite mai arrivato: se lo berranno loro, nel salotto. E senza curatori, fallimenti e cambiali da firmare.
Ecco, speriamo che anche per noi finisca così. Che, dopo la buriana, le vite tritate dalla crisi, i detergenti per le mani, le speranze e le illusioni, e le ore colanti paure e noia, si possa tornare a questo: alle nostre forse banali, ma sicuramente indispensabili, piccole abitudini, e alle buone cose di pessimo gusto. Perché, anche se il tinello sarà un po’ liso, ce lo godremo tutto, il nostro caffè.
Abbiamo parlato di:
Paolo Conte – “Sono qui con te sempre più solo” (da “Paolo Conte”, RCA Italiana, 1974)
Paolo Conte – “La ricostruzione del Mocambo” (da “Paolo Conte”, RCA Italiana, 1975)
Paolo Conte – “Gli impermeabili” (da “Paolo Conte”, CGD, 1984)
Paolo Conte – “La nostalgia del Mocambo” (da “Elegia”, Warner Music Italia, 2004)
Bella storia. Ho amato Conte, sono anni che non lo ascolto.
"Mi piace"Piace a 1 persona
Non è possibile rimanere troppo tempo senza ascoltare Conte! “Diavolo Rosso” per me, che sono piemontese, è pura poesia
"Mi piace""Mi piace"
Infatti!
È l’avvocato che preferisco.
"Mi piace""Mi piace"
Io stimo assai anche il fratello Giorgio. Altro stile altra roba ma mooolto interessante
"Mi piace"Piace a 1 persona
Lo conosco solo di nome.
"Mi piace""Mi piace"
C’è sempre stata nella mia testa quella frase di Conte che diceva: “…piove, chissà perché piove sempre sugli impermeabili e mai sull’anima..” che tu hai quasi citato, perché è la dimostrazione di come un’artista riesca a coniugare musica a poesia, in tutti i sensi (!)
"Mi piace"Piace a 2 people
Mi ripeto: è l’avvocato che preferisco.
"Mi piace""Mi piace"
Ce ne sono altri nel mondo musicale che tu sappia?
"Mi piace"Piace a 1 persona
Non saprei così a bruciapelo.
"Mi piace""Mi piace"