“Tutti ti amano quando sei due metri sotto terra“
Suicidi, eccessi, incidenti, malattie, casualità, età avanzata, omicidio : i musicisti, come tutti i viventi, non si sono fatti mancare nulla per chiudere la loro carriera artistica e la loro parabola di esseri umani. Troppo ghiotta, allora, l’opportunità offerta dal trittico Halloween-Ognissanti-Giorno dei Morti per far finta di nulla: ho così scelto dal mazzo (ed è un mazzo davvero, e troppo, grande) quattro storie un po’ particolari.
1. “Non è carica, vedi?” Johnny Ace (al secolo John Marshall Alexander Jr) nel ’54 è un cantante in fortissima ascesa, soprattutto fra il pubblico femminile: dopo alcuni 45 giri di assaggio, ha appena lanciato la delicatissima “Pledging my love”, un rnb quasi pop e quasi soul, che piace molto e promette assai. Dopo una lunga turné, Johnny e Big Mama Thornton hanno unito le forze per la serata speciale di Natale, al City Auditorium di Houston. Nel backstage, durante la pausa con gli amici, Ace prende in mano una calibro 32 e inizia a giocherellarci: le armi gli piacciono, ogni tanto spara ai cartelli stradali, quindi perché no? A un certo punto, si sente un colpo: “Johnny Ace just killed himself!”, urla qualcuno. Il medico legale liquida la cosa come una roulette russa finita male, ma i testimoni – fra cui la giunonica Mama Thornton – raccontano una storia diversa: “Johnny Ace aveva bevuto e agitava questa piccola pistola intorno al tavolo, puntandola prima contro la sua ragazza, poi su un’altra donna, e qualcuno disse: “Stai attento con quella cosa…”, e lui “Ok, non è carica … vedi?”, la girò verso la tempia e “Bang!”. Al funerale del venticinquenne Ace partecipano cinquemila persone: e la sua “Pledging My Love” balza al primo posto della classifica race, dove resta per dieci settimane. La morte è sempre una bella pubblicità.
2. “Il caricatore è vuoto”. Eh si, di nuovo… Dunque, la storia è questa. Terry Kath è il talentuoso chitarrista e cantante dei Chicago. Dopo undici dischi, e continui attestati di stima (fra cui uno, preziosissimo, di Jimi Hendrix), Kath è ancora inquieto: beve, si fa spesso, e medita di incidere il suo primo album da solista. Il 23 Gennaio 1978 è a casa del suo roadie e amico Don Johnson (sì, l’attore): ha alzato il gomito, come Johnny Ace è un appassionato di armi, e come lui inizia a fare il cretino. Nonostante gli avvertimenti della moglie e di Johnson, punta la sua calibro 38 alla tempia, e spara: la pistola è scarica… Ma vorrai mica arrenderti? Prende allora una semiautomatica calibro 9, mostra il caricatore vuoto, e torna a puntarla alla testa: “Don’t worry about it … Look, the clip is not even in it”. Ri-bang: è morto. Anche col caricatore vuoto, le semiautomatiche possono infatti avere un colpo in canna. Io sono un obiettore di coscienza, le armi non “devo” nemmeno avvicinarle, e posso permettermi il lusso di non saperlo: ma un appassionato no, porco mondo.
3. “Una volta sono morto sul palco. Cristo, non è possibile far di meglio”. Stiv Bators non è esattamente un nome mainstream: ma per chi a Sex Pistols, spille da balia e Malcolm McLaren preferisce il punk americano, Rocket from the Tombs e The Dead Boys, Stiv Bators è il suo messia: un frontman da urlo, selvaggio, estremo, e urticante come l’acido. Chiusa l’avventura dei Ragazzi Morti, Stiv passa al supergruppo Lords of the New Church, e come al solito non si risparmia baracconate ed eccessi. Durante un concerto, nell’82, simula un autostrangolamento col cavo del microfono: un fan, un po’ troppo zelante, prende il filo e tira, per aiutarlo… Stiv prima diventa cianotico, poi è caricato in ambulanza, e infine è dichiarato clinicamente morto: ma dopo due minuti il cuore riparte. Bello lo scherzo, eh?! Passano otto anni: è il 3 Giugno 1990, Stiv è a Parigi e sta aspettando che la fidanzata esca da un negozio: mette un piede fuori dal marciapiede, e un taxi lo prende in pieno. Come niente fosse, si rialza: sta bene, la morte può (di nuovo) andare a farsi fottere. La ragazza non si fida, insiste, e lo trascina al pronto soccorso: ma c’è coda, i medici sono pochi, il tempo non passa più: basta, si torna a casa. Nella notte, Caroline sente Stiv rantolare: è in coma. La corsa all’ospedale è inutile: Bators se ne va nel modo più stupido possibile, per un banale incidente, e una ancora più banale trascuratezza. Caroline, anni dopo, confesserà di aver sniffato una parte delle sue ceneri per restargli sempre vicino.
4. “Cosa devo a mio padre? Tutto”. Molokai è la quinta isola per grandezza delle Hawaii, un paradiso di pace e bellezza: un incanto che, il 2 Gennaio 1997, è macchiato da una tragedia. Nelle correnti che agitano il mare delle Isole del Paradiso, un padre sta lottando per salvare il figlio, di soli 12 anni, da una forte risacca che minaccia di travolgerlo. Si immerge, lo abbraccia, lo porta a galla, e con fatica riesce a riportarlo a riva: ma, stremato, è sorpreso da una corrente malefica, che lo trascina sott’acqua. Il corpo non sarà mai più recuperato. Muore così il quarantaseienne Randy California: nome d’arte di Randy Craig Wolfe, straordinario chitarrista dallo stile hendrixiano e leader degli Spirit che, per una decina d’anni, hanno sfornato un’originalissima miscela di blues, psichedelia e hard rock che fa ancora scuola. Una morte da eroe.
Non c’è una morale, in queste storie. Sì, forse l’ultima è “meno rock” delle altre: ma mentre lo scrivo capisco di star dicendo non solo un’ovvietà ma pure una cretinata. La verità è che le morti sono tutte uguali, in termini assoluti: ma qualche differenza c’è, fra quelle che non hanno lasciato altro che dolore, rabbia e sgomento, e quella che ha invece regalato a un altro essere umano la possibilità di continuare a vivere.