Made in Royal Albert Hall
Una premessa: capisco più di astrofisica che di musica classica… E non che di astrofisica sappia chissà che, quindi capirete con quanto imbarazzo mi accingo ad esplorare un territorio insidioso come il Rock Sinfonico. Partendo da quell’opera che proprio oggi, 50 anni fa, ha dato compimento a tutto: “Concerto for Group and Orchestra” dei Deep Purple.
La Sinfonia Rock, diciamocelo subito, è una roba che non ammette compromessi: o la si ama o la si odia. Ma, fra il tramonto dei Sessanta e l’inizio dei Settanta è – assieme al concept album e alla Rock Opera, e a volte in loro stretta combutta – una delle perversioni più praticate dalle rock star. Iniziano a fare esperimenti – ma và? – i Beatles di George Martin, inserendo legni e clavicembali negli arrangiamenti, convocando un’orchestra per il delirante finale di “A Day in the Life” e legando le canzoni di “Abbey Road” fino a formare una mini-suite; risponde Brian Wilson, presentando “Pet Sounds” come “una sinfonia adolescente a Dio”; e continuano una serie quasi infinita di artisti… Citiamo, in ordine sparso, Frank Zappa, i Virgin Prunes, i Procol Harum: ognuno a suo modo coinvolto nel sogno di far collassare la strumentazione, gli spunti e le abitudini della Musica Colta con la prassi di esecuzione rock (e, mentre ne parlo, mi viene voglia di scriverci sopra … vedremo); ma, ciascuno, arrestandosi appena un attimo prima del traguardo. Scrivere, di proprio pugno, una piece di rock sinfonico, e metterla in scena.
E così, di passo in passo, di tentativo in tentativo, dal ’67 arriviamo all’estate del ‘69: i Deep Purple sono poco più che esordienti, e i due album partoriti in gran fretta in soli tre mesi non hanno ancora chiarito, né alla critica e nemmeno a loro stessi, chi sono veramente. Il tastierista Jon Lord ha infilato a tradimento, fra i riff nervosi del chitarrista Ritchie Blackmore, accenni e citazioni classiche (il “Bolero” di Ravel, “Shahrazād” di Rimskij-Korsakov, Beethoven e Richard Strauss), e ha dichiarato che i Deep Purple sono una “symphonic rock band”: ma l’ambizioso Blackmore, e lo scatenato batterista Ian Paice, saranno d’accordo?
Quando, a Giugno, esce il terzo lp, ci sono già stati due scossoni: nel tentativo di dare una sterzata hard e contrastare il carro armato Led Zeppelin, il cantante Rod Evans e il bassista Nick Simper sono stati silurati a favore di Ian Gillan e Roger Glover; e, in parallelo, Jon Lord – sostenuto dai manager Tony Edwards e John Coletta – ha avuto mano libera per approntare quel progetto orchestrale che sogna fin dal tempo degli Artwoods. (Complimenti per la coerenza, eh!)
Tre mesi di lavoro, l’ingaggio della Royal Philarmonic Orchestra di Londra e del direttore Malcolm Arnold, e i rumors della stampa: e, il 24 Settembre 1969, una variopinta platea di signore in tailleur, ragazzi in semi-sballo e reduci della Swinging London si accomoda alla Royal Albert Hall per assistere al concerto. Inizia la Royal Orchestra, con la Sinfonia nr. 6, opera 95, dello stesso Arnold; proseguono i soli Deep Purple, con la riproposizione di due classici e un nuovo, strabiliante, pezzo di bravura di Gillan e Blackmore (“Child in Time”); e finalmente, l’oggetto misterioso, il Concerto… Misterioso per la critica, per il pubblico: e anche per me.
Il mio rapporto col “Concerto” è sempre stato controverso: ho acquistato il cd solo a discografia (quasi) ultimata, l’ho lasciato incellofanato per qualche anno, e l’ho finalmente aperto quando un mio amico – tre mesi fa – me ne ha regalato una seconda copia (sic!). Ma l’ascolto è stato parziale e distratto: niente da fare, non ingranavo. Sapete, come quei libri che teniamo sulla scrivania: li guardiamo da lontano, li prendiamo in mano, apriamo un capitolo a caso, diamo un’occhiata fuori dalla finestra e prima di accorgercene è già sera… e non abbiamo letto una pagina.
Per fortuna c’è Youtube: e si trova facilmente la ripresa mandata in onda dalla BBC, sei mesi abbondanti dopo la performance. Un filmato che non riproduce tutto-tutto, ma una dose più che sostanziosa. E, appena aperto il file, le cose hanno cominciato a girare: perché se la vedo, la classica mi prende di più. E quando sento Ritchie, Jon e Ian scatenati, godo sempre come un mandrillo. Messe così le cose, i cinquanta minuti dello show sono volati: ma cosa ci ho capito, e cosa mi resta?
Mi è chiaro, ad esempio, che la struttura dello spartito cerchi, attraverso i suoi tre movimenti, di costruire un progressivo avvicinamento fra l’orchestra sinfonica e la rock band: quasi in lotta nel primo (alla placida esposizione orchestrale segue un brusco stacco hard), in dialogo nel secondo (con una parte vocale a ritmo swing cantata dall’esordiente Ian Gillan), e in riconciliazione nel terzo, vivace e incalzante. Mi è altrettanto evidente, invece, che questa intesa, tanto cercata sulla carta, riesca solo di rado a manifestarsi compiutamente nella performance: lo iato, ad esempio, fra l’intro sinfonica e il duro attacco della band nel primo movimento, o l’assolo di batteria nel terzo (ah, gli assolo di batteria… l’unica cosa che proprio non mi manca dei Settanta), sono urticanti, almeno per le mie orecchie. E i temi, infine: proposti, sviluppati, elaborati dall’orchestra, e poi energizzati con decibel e furia dalla band… Motivi che non so se integralmente originali o rimaneggiati da chissà chi, e comunque non esattamente entusiasmanti o incisivi; e che – da profano – mi paiono acquistare dignità e autonomia solo in chiave rock: come se l’inchiostro nero della penna dell’austero Jon Lord classico fosse ormai irrimediabilmente venato del rosso sangue del blues e del soul.
Perché il vero nucleo di ogni discorso sul Rock Sinfonico – e sul “Concerto” dei Deep Purple in particolare – parte da qui: dalla presunta incompatibilità fra musica classica e rock, e dall’analisi dei tentativi. È Lord, dicevamo, a spingere per il Concerto: ma è il direttore Arnold a spronare Jon a scrivere non uno ma tre movimenti, ad aiutarlo a stendere le partiture dei singoli strumenti, e a sbattere sulla sedia quei musicisti che, sdegnati dall’affronto, minacciano di lasciare le prove.
E già questo la dice lunga: parla degli intrinseci limiti teorici di un musicista di prim’ordine (Jon Lord), e che i suoi studi accademici li ha pure fatti, ma che per professione suona altro; parla della supponenza di una buona parte di orchestrali, convinti che l’alto non debba mai mescolarsi al basso; e parla di quel misto di inadeguatezza, scontento e incoscienza con cui un manipolo di rocker fragorosi e abituati a estenuanti improvvisazioni soliste affronta le rigide partiture classiche; parla, infine, di una sala abituata a dinamiche lievi e appassionate, e qui costretta a sorbirsi decibel e capelli lunghi.
Ritchie Blackmore lo spiega bene: “Non mi piaceva la musica classica, volevo solo fare casino. Nel ’69 abbiamo fatto questa cosa per accontentare Jon e per far parlare di noi. Ora adoro le orchestre e la musica da camera: il violino non accompagnato è il mio preferito. Ma allora non eravamo dello stesso livello: suonavo da quindici anni, ed ero accanto a un violinista che lo faceva da cinquanta, e questo solo per fare un favore alla stampa: è un insulto”.
È stato divertente, ma soprattutto istruttivo, vedere il filmato. Il corpo orchestrale mi è apparso diviso in due: i più attempati, inappuntabili nell’eseguire ogni nota nel modo più corretto, ma disinteressati – se non infastiditi – dalla partitura e dai “colleghi rocker”; e i più giovani, che davanti alle svisate di chitarra elettrica e hammond tengono il tempo con l’archetto e sorridono sotto i baffi. Idem il pubblico: in educato e forse impaziente silenzio i “borghesi”, e con le teste ciondolanti a ritmo i post-beat (per non parlare del ragazzo di colore, in preda a deliri chimici). E, di tutti gli orchestrali, i più soddisfatti mi sembrano i percussionisti: quelli che, per abitudine al trapestio ritmico, immagino come più facilmente coinvolti dall’andazzo rock.
Ma anche questa è una proiezione: di chi, cioè, è da sempre un appassionato di rock e pop, e della classica conosce poco o nulla. E che immagina che rock e giovinezza siano un imperativo assoluto, e che uno spettatore in giacca e cravatta sia per forza un reazionario. Sarei curioso di leggere il parere di chi ha un percorso opposto al mio: quindi, sfogatevi!
Ma torniamo a noi: sono dell’opinione che classica e rock, se vogliono dialogare, debbano affidarsi a ipotesi meno schematiche: perché non sempre “la somma fa il totale”; e certamente non lo fa se gli addendi sono di natura tanto eterogenea, e se ci si limita ad accostarli senza (quasi) mai farli interagire. Tutto, fra rock e musica colta, è – se non opposto – comunque diverso: la ricercatezza armonica, la tavolozza dinamica, la struttura formale, l’intenzione comunicativa, il valore assegnato alla pagina scritta e all’esecuzione, e la grana timbrica. La musica classica, inoltre, simboleggia una classe sociale (la medio-alta borghesia) e una cultura (musicale e teorica) che i rocker – e il loro pubblico – hanno da sempre respinto, opponendo con orgoglio i segni della propria alterità.
Ed è curioso che proprio molti fra quelli che una dozzina d’anni prima applaudivano la “Roll over Beethoven” di Chuck Berry ora imitano, citano e corteggiano la tradizione colta. È un atteggiamento contraddittorio, dove ribollono in un sol calderone il desiderio di acquisire nobilitazione e prestigio frequentando una forma artistica “seria e autorevole”, la pretesa di imporre qualcosa del proprio linguaggio a ciò che è (a torto) dipinto come immutabile e retrogrado, e la ricerca di una facile pubblicità. E chissà cosa spinge un direttore affermato come Malcolm Arnold (titolare di un Oscar per la colonna sonora de “Il ponte sul fiume Kwai”) a prestare il fianco a un’operazione così borderline? Il gusto della sfida? Il desiderio di “far da papà” a giovani entusiasti e dotati, e di portarli sulla retta via? Un calcolo commerciale da bottegaio per attirare un po’ di attenzione? La voglia di “salvare” la musica classica dalle secche in cui pare essersi arenata?
Nel “Concerto” – e in generale nel Rock Sinfonico – si può leggere tutto questo, e altro ancora: ma cosa proprio non trovo è l’irrisione, la presa in giro, il lazzo corrosivo… Cose di cui il rock’n’roll, da Jerry Lee Lewis in poi, si è sempre nutrito, ma qui completamente assenti: c’è, invece, il timore di un Blackmore di rimanere ingabbiato per sempre nella formula; c’è l’imbarazzo di un Jon Lord, chiamato a prendersi gli applausi di un pubblico forse non così convinto; e c’è un Ian Gillan, che vive la preparazione alla performance in uno stato di semi-trance, e si decide a scrivere il testo della sua parte giusto un giorno prima, durante un pranzo… Finendo per confessare il turbamento di chi si rende conto di aver commesso una leggerezza (“How shall I know when to start singing my song? What shall I do if they all go wrong?”).
Proprio come un teen-ager in picco ormonale, i Deep Purple hanno fatto ciò che ogni ragazzo deve prima o poi fare: una bravata, anche se ben costruita. Dopo gli applausi degli amici (quelli ci sono sempre), il rimbrotto degli adulti (che non manca mai), un po’ di imbarazzo e la coscienza di averla fatta fuori dal vaso, i Deep Purple si sono rimessi in carreggiata, dimenticando le tentazioni sinfoniche per sposare senza compromessi un linguaggio esplicitamente virtuosistico e hard, destinato a fare la storia. Mentre Jon Lord, dal canto suo, dopo un bis con la Los Angeles Philharmonic Orchestra (25 Agosto 1970), ha continuato a sperimentare in proprio fusioni fra classica e rock attraverso opere più meditate – su tutte “Gemini Suite”, sempre con Arnold, e “Sarabande” – ma senza più tirare per la giacca i suoi compagni di avventura (Blackmore, almeno: perchè nel ’99, con la London Symphony Orchestra di Paul Mann, e con Steve Morse alla chitarra, Lord proporrà nuovamente la piece dal vivo, e nel 2012 ne registrerà una versione in studio… Proprio vero che invecchiando le ossessioni peggiorano!)
Sì: col “Concerto” i Deep Purple hanno pubblicato il primo live ufficiale della loro carriera, fatto un apprezzabile scampagnata nei territori sinfonici, verificato la tenuta dei nuovi innesti, imparato la lezione e capito chi erano: e poi hanno volato. Cosa che non tutti i loro epigoni symphonic – Emerson, Lake & Palmer in testa – sapranno fare: e i cui voli, col passare degli album, diventeranno sempre più goffi, come quelli del tacchino (cit. Guccini).
Di musica classica ne capisco poco, l’ho denunciato: per fortuna ho chiesto aiuto a un blogger molto più preparato di me – Nick Shadow di Matavitatau – il cui ottimo contributo trovate qui.
Deep Purple – “Concerto for Group and Orchestra” (live album)
Registrazione: 24/09/1969 – Pubblicazione: 20/12/1969 – Tetragrammaton Records
Tracklist
- Hush – 4:42 (Joe South)
- Wring That Neck – 13:23 (Blackmore, Simper, Lord, Paice)
- Child in Time – 12:06 ((Blackmore, Gillan, Glover, Lord, Paice)
- Concerto for Group and Orchestra (Jon Lord, with lyrics by Ian Gillan)
- First Movement: Moderato-Allegro – 19:23
- Second Movement: Andante – 19:11
- Third Movement: Vivace-Presto – 13:09
- Parts of the Concerto’s “Third Movement” (encore) – 5:53
(tracce 1,2,3 eseguite dai Deep Purple; tracce 4 e 5 eseguite dai Deep Purple con la Royal Philarmonic Orchestra di Londra)
Musicisti
Deep Purple:
- Jon Lord: keyboards
- Ritchie Blackmore: guitar
- Ian Gillan: vocals
- Roger Glover: bass
- Ian Paice: drums
The Royal Philharmonic Orchestra, diretta da Malcolm Arnold
Un pensiero riguardo “Deep Purple – Concerto for Group and Orchestra”