La qualità cui tutti i chitarristi elettrici blues, o ispirati al blues, si erano scrupolosamente attenuti – almeno sino a tutti gli anni Cinquanta – era una sola: l’espressività. Per quanto molti fossero tecnicamente preparati – e alcuni, come Earl Hooker e Johnny “Guitar” Watson, indubbiamente lo erano – restava in loro una specie di pudore, che impediva di superare certi limiti: gli assolo restavano confinati nelle 12 battute del giro blues standard, e sempre attenendosi alle tecniche di marca RNB.
La rivoluzione che colpisce la chitarra blues si manifesta, non a caso, proprio all’inizio degli anni Sessanta: e, sempre non casualmente, è accesa da un bianco dell’Indiana. Lonnie McIntosh (1941-2016) inizia a suonare a sette anni, ispirato dai grandi country singer che ascolta fino allo sfinimento, con la radio nascosta sotto le lenzuola: i primi insegnamenti arrivano dalla mamma (musicista country), da un cantate non vedente di gospel, da un vecchio bluesman di colore, e dal fingerpicking di Merle Travis. Accerchiato da tanti stimoli, il tredicenne Lonnie non ha più scampo, e lascia la scuola per tentare la carriera professionista.
Dopo alcune incisioni in qualità di session man, e la solita trafila nelle bettole del Midwest, nel 1960 la Lonnie McIntosh band rinasce sotto le spoglie di Lonnie Mack & The Twilighters. Assunti dalla piccola Fraternity Records di Cincinnati come house band, vi restano per circa tre anni, mentre scalpitano in cerca della strada per il successo.
L’occasione buona arriva quasi per caso: il 12 Marzo 1963, nella pausa di un lavoro su commissione, Lonnie si lancia in uno strumentale di sapore blues, basato sul giro armonico di “Memphis, Tennessee” di Chuck Berry. Per Lonnie la cosa non merita troppe attenzioni, ma la Fraternity Records non è dello stesso avviso, e pubblica il nastro a sua insaputa col titolo di “Memphis”. Intuizione felicissima: “Memphis”, a Giugno, è al quarto posto della hit RNB, e al quarto di quella pop: risultato eccezionale, per uno strumentale [1].
“Memphis” è rivoluzionario: uno sbalorditivo unicum di calore espressivo, gusto melodico, disinvoltura esecutiva e perfezione tecnica… Una performance veloce, precisa, incisiva e calda, in cui Mack, percorrendo la tastiera in lungo e in largo, e attingendo a tutte le tecniche esistenti (bicordi, bending e legati), esplora le 12 battute del giro armonico blues per sei volte consecutive: una prova che annulla secoli di tradizione per avventurarsi nei moderni territori dell’improvvisazione e della dilatazione strumentale.
Nel ’63, scoperta la propria vocazione, Lonnie pubblica altri singoli di derivazione rhythm’n’blues, come “Chicken pickin’”, la cover di “Suzie Q”, e soprattutto “Wham!”, strumentale di ispirazione gospel di buon successo: brani poi raccolti nell’album “The Wham of that Memphis man!” (1964). Nei live Lonnie dà fiato alle corde vocali: e ha una voce intensa e profonda, comunicativa e calda. Al pari degli strumentali blues, le sue canzoni di marca country-gospel – “Where there’s a will” in particolare – impressionano mezzo Sud, e ne fanno un eroe del cosiddetto “blue-eyed soul”, il gospel cantato da bianchi.
Lonnie sembra avere le porte spalancate: ma, durante un’intervista a una black radio di Birmingham, Alabama, capita il fattaccio. Il dj, quando vede entrare l’ospite, esclama un rancoroso “Baby, you’re the wrong color”, e cancella l’appuntamento: uno strano caso di razzismo a colori invertiti. Di colpo Mack diventa un reietto: alla fine del ‘64, a poco più di un anno dal fulminante esordio, la stella di Lonnie deve già cedere ai nuovi miti in arrivo da oltre Atlantico, e accontentarsi di fare battaglia di retroguardia, alternando temporanei ritorni di fiamma a lunghi blackout… Ma la sua influenza sul mondo del blues e del rock non termina certo qui.
Lonnie Mack è universalmente riconosciuto come l’inventore e il maestro del cosiddetto “roadhouse rock”, una veemente miscela di country blues, rhythm’n’blues, soul, blues urbano e rock’n’roll: un genere bastardo, giocato sul calore espressivo, su un serrato ritmo rock, su una band minimale (chitarra, batteria, basso) e su un sound torrido, con ampie improvvisazioni strumentali, esplosive e tecnicamente complesse [2]. Con la sua fida Gibson Flying V, e con le sue “Memphis”, “Wham!” e “Chicken pickin'”, Mack forgia uno stile solista letteralmente in anticipo di anni sul rock moderno.
”Eroe dimenticato” della chitarra, Mack ha un’immensa influenza su tutti i guitar-hero del rock-blues, come Jeff Beck, Duane Allman, Eric Clapton, Mike Bloomfield e Stevie Ray Vaughan… Gente che, a furia di ascolti, ha letteralmente consumato i suoi dischi, nel tentativo di scoprirne i segreti.
[1] Finora, solo tre pezzi strumentali avevano effettuato un simile crossover: per la precisione, “Guitar boogie shuffle” dei Virtues, “Because they’re young” di Duane Eddy e “Walk, don’t run” dei Ventures.
[2] Mack pizzica le corde con indice, medio e anulare della mano destra, mentre col mignolo manovra la leva del tremolo: tecnica di straordinaria difficoltà, e di ardua imitazione.
Articolo tratto da “Il Grande Viaggio” – Vol. 2- Parte Ottava
…Coming soon!