Masters of moustache
In questi giorni, un paio di baffi sta inondando le sale cinematografiche e i ricordi dei rock fan di mezzo mondo: quelli di Freddie Mercury. “Bohemian Rhapsody”, come tutti i biopic, non è esente da incongruenze o errori storici: e in questo pure gli assetti piliferi hanno la loro parte. Nella sequenza in cui i Queen incidono “We Will Rock You”, Freddie entra in studio esibendo baffetti e canotta (il cosiddetto “Castro clone” style): in realtà nel 1977 – anno del più iconico pezzo dei Queen – Mercury amava ancora sfoggiare tutine aderenti, capelli lunghi, e un volto perfettamente rasato… Il suo look più famoso arriverà a sorpresa solo nel 1980: e diventerà subito una griffe.
Diversa la storia dei baffi di James Hetfield, leader dei Metallica: che, dopo aver lasciato crescere, anno dopo anno, qualche peluzzo sulla sua faccia da biondo californiano, nel 1991 completa la trasformazione con baffoni e basette alla Lemmy… Una scelta non definitiva, che complice una sempre più minacciosa “piazza” sulla crapa, porterà prima il buon James ad accorciarsi i capelli, e poi a limitare la peluria a un pizzetto (ormai grigio) sul mento.
Difficile pensare a due tipi così diversi: icona gay il primo, metallaro incazzato e truce il secondo; alfieri di un rock molto divertente, spesso barocco e talvolta eccessivamente eclettico, i Queen; inventori ufficiali dello speed metal, ortodossi salvatori di quell’heavy che stava pericolosamente rotolando verso il glamour, i Metallica. Eppure, a dispetto di tutte le logiche, nella mia memoria Hetfield e Mercury vanno continuamente in cortocircuito. Il misfatto ebbe origine nella Pasquetta del 1992: un lunedì (toh, che strano…) in cui i Queen fans e un manipolo di grandi musicisti si riunirono a Wembley per – come enunciò un commosso Brian May – “dare a Freddie Mercury il più grande addio della storia”.
Quel giorno, e me lo ricordo bene, passai il pomeriggio sul balcone, a leggere “Cose preziose” di Stephen King (ero solo, il meteo era tiepido, e di stare davanti alla tv non mi andava): ma il videoregistratore era sintonizzato su Videomusic. Quando, più tardi, avvolsi il nastro e pigiai “Play”, vidi due cose, in stretta sequenza: la silhouette di Freddie, col pugno alzato; ed Hetfield che entrava sul palco, carico e concentrato, in maglietta e pantaloni nero carbone, per sfidare uno stadio colmo fino all’inverosimile con le note minacciose di “Enter Sandman”.
Come si fa a rimanere indifferenti, davanti a un riff tanto tenebroso, al ritornello tremendamente catchy, al vocione di Hetfield e alla furia di Lars Ulrich, che a torso nudo pesta le pelli come non ci fosse un domani? E infatti, a distanza di anni, continuo a ritenere questo pezzo – e la versione live in primis, spogliata delle (poche) furberie volute dal produttore Bob Rock – uno dei più accattivanti esempi di metal-single di sempre.
Il set prosegue con la solenne “Sad but True” e con la power ballad “Nothing Else Matter”: un corposo estratto dal black album “Metallica” (1991), disco di vendite stratosferiche che porta il quartetto di Los Angeles alla fama mondiale, e che secondo molti sancisce la fine dei Metallica più radicali e antagonisti. Un set, dicevamo, adrenalinico e vigoroso, che Hetifled contribuisce a surriscaldare con la sua attitudine da biker texano: ma che coi Queen e col glamour alla Liza Minnelli di Mercury, al momento, sembra davvero aver poco a che fare.
Usciti i Metallica, arrivano gli Extreme: gruppo al tempo molto di moda, guidato dal vocalist Gary Cherone e dal virtuoso chitarrista di origini portoghesi Nuno Bettencourt – qualcuno li ricorda ancora? – che propone uno scoppiettante collage di ben tredici minuti. Nel medley trovano posto alcuni classici – “Bohemian Rhapsody”, “I Want to Break Free”, “Bicycle”, “Radio Ga Ga” – e un paio di chicche, fra cui “Mustapha”, “Keep Yourself Alive” (il singolo di debutto dei Queen,’73), e un brevissimo estratto da “Stone Cold Crazy”. Lo confesso, all’epoca dei Queen conoscevo soprattutto le hit degli anni Ottanta: ma quei pochi secondi (li ho misurati, 37) di furia e rapidità mi lasciarono di sasso.
Passa un’ora buona; sul palco si avvicendano i Def Leppard, Bob Geldof e i Guns N’Roses, e finalmente i Queen, con l’arrembante “Tie Your Mother Down” (gli ospiti sono Joe Elliott e Slash). E poi Roger Daltrey degli Who, un emozionatissimo Zucchero (cui nessuno, nel backstage, passò la chitarra e si trovò, “nudo”, davanti a un miliardo di spettatori in mondovisione), gli spassosi Spinal Tap, Gary Cherone, e di nuovo James Hetfield: che, con la fosca compagnia di Tony Iommi dei Black Sabbath (e dei suoi baffi… una persecuzione!), si scatena sui 3 minuti scarsi di “Stone Cold Crazy”.
Finalmente posso apprezzare il pezzo per intero: un cantato al limite dello scioglilingua, sostenuto solamente dal ritmico ticchettio delle bacchette, un ritornello quasi inesistente, che ribadisce la “lucida follia” del titolo, due fluidi soli di Brian May, e soprattutto un riff di chitarra rapido e sincopato, che impegna il drummer Roger Taylor in una performance proto-punk… Hetfield, che ora indossa un gilet di pelle nera, ringhia lo sconclusionato incubo del protagonista, ma senza chitarra non sa bene come muoversi: e, allora, gambe ben piantate, un convinto headbanging a Roger Taylor, un microfono brandito come una clava, e un trucido grugnito finale.
Il set continua, fra Paul Young, David Bowie, Seal, Annie Lennox, uno stupefacente George Michael (che mi lasciò senza parole) e qualche lacrima: per fortuna arriva Axl Rose, pieno di coca come una scimmia, che riporta “Bohemian Rhapsody” – intonata, per la prima parte, dal troppo formale Elton John – alla sua natura più selvaggia, e infiamma la platea. Ma non è di Axl Rose che stavamo parlando: lasciamolo ondeggiare come un serpente davanti al mare di mani che accompagnano una delle “We Will Rock You” più coinvolgenti della storia, e torniamo ai “Masters of moustache” Hetfield e Mercury.
La settimana successiva fu spesa con gli amici a guardare, ascoltare e commentare il Memorial: e, da lì, le curiosità, i ricordi dei più vecchi e gli approfondimenti dei soliti ben informati. E venne fuori che “Stone Cold Crazy”, contenuta nel terzo lp dei Queen, “Sheer Heart Attack” (1974), risaliva addirittura alla fine degli anni Sessanta, scritta da Mercury per la sua prima band, i Wreckage: toh, un cantante-pianista che aveva partorito un riff di chitarra… Roba davvero strana! Il brano fu messo su vinile solo nel ’74: nel frattempo ognuno aveva aggiunto o cambiato qualcosa, e fu naturale apporre una firma collettiva, la prima della carriera dei “Regina”.
“Stone Cold Crazy” risultò da subito uno dei pezzi più amati, dai fans e dagli stessi Queen, che lo inserirono in tutte le scalette live degli anni Settanta: strano, per una canzone così poco-Queen e tanto particolare. I critici musicali, non sapendo cosa dire e in quale casella mettere la canzone, dovettero lì per lì inventarsi strane supercazzole (“early blisteringly fast song”)… Fino al 1983, quando da Los Angeles arrivarono i Megadeth e i Metallica, con i loro riff a rotta di collo, il sound abrasivo, la batteria accelerata e le voci truci, inaugurando la moda dello Speed Metal. E gli analisti tirarono un sospiro di sollievo: ecco, “Stone cold crazy” era “una canzone speed metal, prima che lo speed fosse inventato”.
Passano altri sette anni, il mondo cambia pelle, e il rock pure: il metal si è fatto ancora più torvo, i Queen – freschi reduci da “The Miracle” – stanno rifinendo “Innuendo”, e la Elektra Records vuole festeggiare i suoi splendidi quarant’anni. Il doppio album “Rubàiyàt” (parola di ascendenza persiana, e che forse avrebbe fatto piacere ai genitori di Mercury, di etnia parsi) presenta in scaletta 39 cover del catalogo storico rivisitate dalle più recenti firme Elektra-Asylum: i Metallica, che (con mia sorpresa) dichiarano i Queen come una delle loro influenze più forti, tirano fuori dal cassetto “Stone Cold Crazy”, e la piazzano sul disco 2.
E non finisce qui: quando, a Giugno 1991, danno alle stampe il singolo “Enter Sandman”, sulla B-side piazzano proprio “Stone Cold Crazy”: pezzo che, complice una devastante batteria dalla doppia cassa, e qualche ritocco al testo, si è ulteriormente incattivito e potenziato, e porta in dote a Hetfield e soci un Grammy Award per la miglior performance metal dell’anno.
A Novembre Mercury ci lascia, e sei mesi dopo si celebra il Freddie Mercury Tribute: il cerchio si è chiuso, il cortocircuito di cui accennavo all’inizio ha avuto una spiegazione, e il resto è storia. Il mini-cd con “Enter Sandman” e “Stone Cold Crazy” è sempre al suo posto, a casa mia, e quel concerto l’ho rivisto innumerevoli volte, e non finisce mai di affascinarmi e commuovermi: anche perché la versione poi finita su Dvd è orfana (per motivi a me inspiegabili) di tutta la prima parte, Extreme e Metallica compresi, e quindi il mio nastro Vhs (ora tradotto in traccia Avi) è ancora più prezioso. May, Taylor e Deacon sono assieme per l’ultima volta, le performance offerte dagli ospiti sono tutte (o quasi… vero, Robert Plant?) all’altezza, e le oltre tre ore volano via che è un piacere: una lezione di musica, amicizia, rock e commozione che ha fatto storia, e di cui ancora si parla… Insomma, un concerto da non perdere: e, tanto per tornare in tema, da leccarsi i baffi.
Metallica – “Enter sandman” / “Stone cold crazy” (cd single)
Pubblicazione: 30 Luglio 1991 – Elektra Records
Tracklist
- Enter Sandman (Hetfield, Ulrich, Hammett) – 5:32
- Stone Cold Crazy (Mercury, May, Taylor, Deacon) – 2:17
- Enter Sandman (Demo) (Hetfield, Ulrich, Hammett) – 5:04
Musicisti
- James Hetfield – lead vocals, rhythm guitar
- Kirk Hammett – lead guitar, backing vocals
- Lars Ulrich – drums, percussion
- Jason Newsted – bass, backing vocals
E vabbè, se già avevo voglia di guardare quel concerto, ora non posso più farne a meno. Ma dai c’era pure Zucchero?
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Si, alle prese con “Las palabras de amor”! Pezzo molto famoso in America Latina, pare. E Zucchero fresco reduce dal duetto di successo con Paul Young di “Without a woman” (“Senza una donna”)
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