The Italian Chapel: la Guerra, una Madonna e un cuoricino

Ciao a tutti. Come raccontato nel post precedente (ma come, non l’avete divorato? Eccolo QUI :-)), a Luglio abbiamo fatto un bellissimo viaggio alle Orcadi e alle Shetland: e alle Orcadi abbiamo scoperto e visitato un monumento molto interessante, la cui vicenda è connessa strettamente con la Guerra e con l’Italia. Si tratta della cosiddetta Italian Chapel: ed ecco la sua storia.

Il 14 Ottobre 1939 un sottomarino nazista silura, nella baia di Scapa Flow (Orcadi), la HMS Royal Oak, causando ben 833 morti: è il primo, clamoroso, affondamento di una nave britannica nella Seconda Guerra Mondiale. Winston Churchill corre subito ai ripari: occorre a tutti i costi proteggere la baia, in cui ha sede un’importantissima base della Marina. La baia è protetta da 5 isole e isolotti: ma il sottomarino ha avuto buon gioco a passare, inosservato, nei bracci di mare fra le piccole terre emerse, fino ad arrivare all’obbiettivo. Si inizia così la costruzione di quattro sbarramenti difensivi, con gabbioni metallici zeppi di rocce posati sul fondo marino, chiamati a collegare in superficie le isole che proteggono la baia, e a impedire in profondità il passaggio di altri sommergibili.

The Churchill Barrier

Alla costruzione di queste barriere – dette poi Churchill Barriers – sono chiamati i prigionieri di guerra italiani, catturati in Libia durante la Campagna d’Africa e qui deportati, al Campo 60. Possiamo solo immaginare il loro sconforto: sconfitti, reclusi, e per di più in un luogo lontano da casa e freddo, umido e spazzato dal vento…. Un francobollo di terra sperso nel mare. Vuoi per fede, vuoi per il desiderio di trasformare un momento difficile in qualcosa di utile, il parroco del Campo, padre Giacobazzi, d’intesa col maggiore inglese T.P. Buckland, ottiene l’autorizzazione affinché i prigionieri possano dedicarsi alla costruzione di un luogo di culto. Inizia così la storia dell’Italian Chapel.

Domenico Ciocchetti

A occuparsi della parte artistica è chiamato il prigioniero Domenico Ciocchetti: nato nel 1910 a Moena (Val di Fassa), ultimo di dodici figli, nella vita civile si occupa di pittura su legno… E nel 1940, durante la prigionia in Egitto, era riuscito a garantirsi la sopravvivenza copiando foto a matita e facendo ritratti ai soldati inglesi (…quando si dice che con l’arte non si mangia!). Trasferito alle Orcadi, Ciocchetti inizia a darsi da fare: costruisce un teatrino e lo decora; dalle sue mani benedette esce poi la statua di San Giorgio che uccide il drago, in cemento armato. Finché arriva la proposta per la chiesetta: il Maggiore – che lo stesso Domenico ricorda come “persona degna e umana, vero padre per i prigionieri” – acconsente, e si adopera a fornire tutto il possibile.

Si prendono due “Capanni Nielsen” – piccoli capannoni prefabbricati in acciaio – li si intonaca, e poi la parte più difficile: la decorazione interna. Coi pochi mezzi di fortuna a disposizione (spesso prelevati dalle navi affondate), e l’aiuto di alcuni compagni, emergono un altare, la balaustra, diversi lucernari (ricavati da scatolette di carne), un’acquasantiera, due candelabri, una bellissima cancellata dell’amico e artigiano del ferro, l’abruzzese Giuseppe Palumbi, e il dipinto dell’altare: la Madonna dell’Ulivo – copiata da un “santino” – circondata da teste d’angelo, i quattro Evangelisti, e altri angeli in adorazione. L’unica, piccola, navata è rivestita di gesso e legno, e dipinta a raffigurare illusionisticamente file di mattoni. Non da meno l’esterno, con pinnacoli gotici di creta, una testa del Cristo e una piccola campana, recuperata da una nave.

La pace è il tema conduttore dei dipinti: la Madonna ha in mano il Bambino e il ramo d’ulivo, un angelo regge lo stemma di Moena (in cui un uomo rema su un mare calmo), e un altro angelo ripone la spada nel fodero.

L’Italian Chapel è davvero un’opera commovente: la qualità artistica è ottima, ma è il contesto storico e umano a emozionare. Una storia incredibile, piena di cuore, di capacità di resistere e rimanere “vivi”. E, se avrete ancora pazienza di continuare, capirete quanto altro c’è ancora.

Già: perché i prigionieri lasciano le Orcadi nel Settembre 1944. Ma Ciocchetti chiede e ottiene il permesso di rimanere ancora un paio di settimane: l’acquasantiera non è ancora completa. E’ uomo tutto d’un pezzo: e se ha iniziato un compito, lo deve finire. E così fa: termina il suo ultimo lavoro, saluta tutti – isole e santi – e torna in patria.

Passano 13 anni: il tempo non concede sconti, il meteo nemmeno, e la cappella inizia a deteriorarsi. Il parroco cattolico delle isole, Padre Whitaker, prende in mano la situazione: e, grazie alla BBC, Domenico viene finalmente rintracciato, e nel 1960 accetta di tornare qui, a occuparsi del restauro. Incredibile, vero? E non sarà l’ultima: quattro anni dopo dona alla chiesa le stazioni della Via Crucis, intagliate nel legno a Moena, e oggi appese in navata. Poi, nel 1970, accompagnato dai figli, torna a Scapa Flow, per un commiato finale. Morirà a 89 anni, nel 1999: e anche i giornali inglesi ne daranno notizia.

Ora, su queste barriere, è stata costruita una strada carrozzabile, che collega Mainland e South Ronaldsay, attraverso le isolette di Lamb Holm, Glims Holm e Burray. Nelle piccole baie, ancora oggi, si vedono arrugginiti relitti di navi da guerra: un ricordo e un monito. E la chiesa di Ciocchetti e dei suoi amici è ancora lì: piazzata su un piccolo pianoro verde prospicente una delle Churchill Barrier, e custodita dalla statua di San Giorgio, l’Italian Chapel – oltre al suo “ruolo” di casa di Dio – è anche una delle attrazioni turistiche più note e amate dell’arcipelago. Parecchi italiani, nipoti e pronipoti di quei prigionieri, ogni anno passano di lì, a rendere omaggio ai loro avi, e a tutte quelle persone che seppero costruire un’opera tanto devota in un momento tanto difficile. Sembra un racconto di Giovanni Guareschi… Ma è successo davvero.

Chi visita la chiesetta, se presta attenzione, potrà notare che il fermaporta della cancellata del presbiterio ha una foggia curiosa… Un piccolo cuore in ferro battuto. Un simbolo d’amore che Giuseppe Palumbi, il bravissimo fabbro, volle donare a una ragazza orcadiana di cui si era innamorato. E come non commuoversi?

E ora le dediche. Dedico questo piccolo post, innanzitutto, a Domenico, a Giuseppe, e a tutti i prigionieri del Campo 60: a quelli che, per circostanze, forza d’animo o convinzioni profonde, non lasciarono mai che lo sconforto e l’odio ideologico avessero la meglio su quanto avevano di più prezioso, e seppero costruire la pace anche in tempo di guerra.

E poi lo dedico alle innumerevoli teste di cazzo che ancora oggi continuano a fare guerre, e a sterminare bambini, e gente innocente. Seminerete odio, violenza e disperazione: ma non potrete mai fermare – almeno non del tutto – la speranza, l’amicizia, il rispetto fra nemici e la bellezza. Sono cose che non capirete mai: e questa è la vostra maledizione.

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