Visto al cinema – “Talking Heads – Stop Making Sense”

Ciao a tutti. Ci sono gruppi di cui conosco bene, a volte benissimo, l’intera discografia; e ci sono band di cui ho ben presente parecchi brani, ma senza averne una visione d’insieme. Ecco, i Talking Heads rientrano in quest’ultima categoria: mi piacciono parecchio, sono affascinato dalla figura del leader, David Byrne, canticchio alcuni pezzi, ma non sono mai andato oltre a un ascolto episodico… Lacuna che da tempo volevo colmare.

E’ stato con questo spirito che lunedì sera, assieme all’amico Silvio (che invece conosce molto bene Byrne e soci), e le rispettive consorti, sono andato al cinema a vedere lo storico film-concertoStop Making Sense“: la ripresa di tre spettacoli tenuti a Los Angeles nel Dicembre 1983, pubblicata originariamente nel 1984 come film e relativa colonna sonora e – 39 anni dopo, al termine di un bel lavoro di ripulitura, integrazione e rimasterizzazione – uscita nuovamente in sala.

Sono subito costretto a correggermi: questo non è un film-concerto qualsiasi! Primo, perché i Talking Heads sono un gruppo tutt’altro che scontato o banale; secondo, perché alla regia siede Jonathan Demme, che i più ricorderanno per “Il silenzio degli innocenti”, “Philadelphia” e “The Manchurian Candidate”. Quindi, se film anomalo doveva essere, film anomalo è stato! E fin dai primi fotogrammi.

La macchina da presa inquadra un paio di scarpe bianche, e con un piano sequenza ne segue i passi fino a un palcoscenico disadorno, vuoto: è lui, David Byrne, e davanti ha centinaia di persone. Poggia sulle assi un mangiacassette, pronuncia un laconico “Ho un nastro che vorrei farvi sentire“, preme il “play” e parte la base ritmica di “Psycho Killer“. Uno di quei pezzi-capolavoro in cui tutto quaglia alla perfezione: la voce straniata di Byrne, un ritmo funky retto in piedi dalla sola chitarra acustica, spezzato e nervoso come i raggelanti pensieri del serial killer del titolo, e un arrangiamento minimale… David, sul palco, è solo, ma basta e avanza: canta, suona, tiene il tempo battendo il piede, con mosse spasmodiche simula di essere crivellato dai colpi di una sparatoria, e cade a terra. Applausi!

Arriva poi la bassista, Tina Weymouth, che in duo col boss esegue la morbida “Heaven“, l’unica ballata di tutto il programma. Ma non c’è due senza tre: terzo pezzo, terza apparizione in scena, il batterista Christ Frantz, con tanto di bacchette, sorrisi e rullate sui tom. E col quarto brano, “Found a Job”, tocca alla quarta e ultima Testa, il chitarrista Jerry Harrison, fare il suo ingresso.

Come dicevo: non una semplice ripresa, quindi, ma una narrazione vera e propria. Anche perché Demme non fa nulla per nascondere la crew che sposta le pedane dei musicisti, collega i cavi e gli strumenti, ma la mette in primo piano, e ne fa materia viva di racconto. Nessuna luce colorata, nessun effetto speciale, pochissime riprese del pubblico: tutta l’attenzione è sul “farsi” del concerto, sulle canzoni, sulla band e loro performance corporea.

I Talking Heads, man mano che la scaletta prosegue, sono raggiunti da altri musicisti di supporto: due coriste, un percussionista, un tastierista e un secondo chitarrista. E, di canzone in canzone, fra primi piani e campi lunghi, le coreografie dei musicisti, chitarre strapazzate e walking bass, il ritmo cresce, cresce, cresce fino al parossismo: un funky nervoso e ossessivo, una crasi meticcia fra le allucinazioni urbane e psicotiche delle bianche Teste Parlanti, e il groove sudato da ghetto dei musicisti amici.

La scaletta non dà tregua: “Burning Down the House“, “Life During Wartime“, “This Must be the Place“, “Swamp“, “Once in a Lifetime“, “Girlfriend Is Better” e la torrida “Take Me to the River” sono deliri di asimmetria e ritmo, traspirazione e astrazione, calore e raziocinio. E resto impressionato dalla performance di David Byrne: un qualcosa che è, contemporaneamente, canto, recitazione, ballo, intensità, chitarra, programmazione, atletismo, paranoia e straniamento. Un genio, Byrne: o, più semplicemente, un vero artista. E non che la mitica bassista Tina sia da meno!

Impossibile non battere il piede, non rimanere affascinati dalle mosse, dalla voce, dal ritmo di Byrne e soci, e trattenersi dall’applaudire (in effetti, un paio di volte l’ho pure fatto!); impossibile non sentirsi gelare il sangue davanti all’incubo a occhi aperti di “Psycho Killer”; impossibile non sentirsi gloriosamente esausti, al termine di certi pezzi; e impossibile non sorridere alla vista del gigantesco vestito over-size indossato dal leader in “Girlfriend Is Better”, tanto indovinato da diventare uno dei simboli della band.

Cento minuti passano in un attimo: e, coi giacconi in mano, dopo l’ultimo applauso, si esce. Fuori è buio e fa freddo: un saluto, un abbraccio, “ci vediamo”, la macchina si mette in moto, e in pochi minuti siamo tutti a casa. Ma il piede tiene ancora il tempo: e il giorno dopo, in ufficio, “Life During Wartime” continua a girarmi in testa. E sì: mai come in questi anni, il concetto di “vivere in tempo di guerra” è d’attualità. Purtroppo.

“Ci vestiamo da studenti, ci vestiamo da casalinghe oppure in giacca e cravatta / (ma) Questa non è una festa, non è una discoteca, non è cazzeggiare in giro: vorrei baciarti, vorrei stringerti, ma non ho tempo per questo, ora“.

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Abbiamo parlato di:

  • Stop Making Sense” (1984, USA – 2023 re-release, 101 min)

RegiaJonathan Demme

Setlist

  • Psycho Killer
  • Heaven
  • Thank You for Sending Me an Angel
  • Found a Job
  • Slippery People
  • Burning Down the House
  • Life During Wartime
  • Making Flippy Floppy
  • Swamp
  • What a Day That Was
  • This Must Be the Place
  • Once in a Lifetime
  • Genius of Love (as Tom Tom Club)
  • Girlfriend Is Better
  • Take Me to the River
  • Crosseyed and Painless

Formazione

  • David Byrne – chitarra, voce
  • Tina Weymouth – basso, chitarra, tastiere, voce
  • Chris Frantz – batteria, voce
  • Jerry Harrison – chitarra, voce

Musicisti ospiti

  • Bernie Worrell – tastiere
  • Alex Weir – chitarra, voce
  • Steve Scales – percussioni
  • Edna Holt – cori
  • Lynn Mabry – cori

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