Liberace non deve morire

Ciao a tutti. Non so se qualcuno di voi – ma penso di sì – abbia mai visto il film “Misery non deve morire“: la storia di uno  scrittore di successo che, vittima di un incidente d’auto, si ritrova prigioniero delle amorevoli cure della sua “fan numero uno”… Una squilibrata, morbosa e violenta, che lo tiene prigioniero al letto, fra angherie, languidi slanci d’amore e crisi di nervi da manicomio. Bene, a un certo punto, la pazza Annie (interpretata da una gigantesca Kathy Bates) si dichiara una tifosa entusiasta del musicista Liberace… Ecco: ma chi è, questo qui? Mai sentito!

Eppure Liberace è un artista che, pochissimo noto in Italia, ai suoi tempi negli Stati Uniti ha raggiunto un successo stellare, fra programmi tv, spettacoli a Las Vegas e dischi venduti. E ha una storia interessante: come il suo personaggio, decisamente sopra le righe! Ecco la sua storia.

Władziu Valentino Liberace nasce nel Wisconsin nel 1919, da padre italiano (di Formia) e madre polacca: Lee inizia a suonare il piano all’età di quattro anni, e dà subito prova di un talento prodigioso. Diplomato al conservatorio, nel ’40 è assunto dalla Chicago Symphony Orchestra: ma presto si allontana dall’accademia per inventare un modo tutto suo di fare musica, che definisce un “pop con un po’ di classica” o, più ironicamente, “musica classica senza le parti noiose“.

Durante gli anni Quaranta, mentre fa la spola fra New York e Las Vegas, mette a punto il suo personaggio: un entertainer stravagante con spiccati accenti esibizionistici, capace di passare nella stessa serata da Chopin alle western song, di scherzare col pubblico in sala, di raccoglierne le richieste, e di rispondere con incongrui e divertenti medley inventati al momento. Gli spettacoli sono sgargianti e fracassoni tributi alla sua esplosiva personalità: entra in scena vestito con smoking bianchi o damascati, si dirige verso il pianoforte – ricoperto di foglie d’oro (o, come più avanti, con specchi e pietre preziose) – su cui è sempre appoggiato un candelabro, e inizia a suonare.

Nel 1952 approda in tv: il suo Liberace Show diventa uno dei format più amati della storia (arriverà anche in Inghilterra), con una media di 30 milioni di spettatori: dopo la sigla, il morbido standard jazz “I’ll Be Seeing You”, Liberace inizia il suo vorticoso pot-pourri di pagine classiche, arie di musical, colonne sonore, ritmi latinoamericani e boogie-woogie, mentre chiacchiera col pubblico, guardando e parlando in camera. Fra i molti spettatori inglesi, anche un giovanissimo Elton John… Che, forse forse, qualche idea da questo showman la prende!

Abbandonato il piccolo schermo alla fine degli anni Cinquanta, Liberace trova in Las Vegas la sua “città dell’anima”: i costumi diventano ancora più effemminati ed eccentrici (piume di struzzo, anelli e cappelli), si presenta in palcoscenico a bordo di una Rolls-Royce, e colma le coreografie con cori, macchine e animali… E con qualche giovane talento, desideroso di mettersi in mostra: come, toh, Barbra Streisand!

Il successo commerciale è enorme: sei dischi d’oro (i suoi singoli più venduti sono le riletture pianistiche di “Ave Maria” e di “Here comes Santa Claus”), una discografia sterminata, e onorari da favola (fra gli anni Cinquanta e Settanta è l’artista con il più alto cachet al mondo). Sfrenato sul palco, o dietro la telecamera, lo è anche nel privato: progetta e fa addirittura costruire una piscina a forma di pianoforte! Accusato dalla critica specializzata di approssimazione e vanagloria, risponde con un sardonico: “Io non do concerti, metto in piedi uno spettacolo“. E diventa un’icona così importante che tutti lo vogliono: come confermano i suoi camei nei telefilm “The Monkees”, “Batman” e nel “Muppet Show”.

Nonostante circoli, quasi da subito, la voce di una sua sempre negata seppur evidente omosessualità, rifiuta ostinatamente di fare coming out: e a nulla vale né la causa per danni intentata dal suo autista-amante, Scott Thorson, né la dichiarazione post-mortem dell’amica Betty White, usata dal management come “copertura”. La  sua condizione di sieropositivo è tenuta celata al pubblico fino a dopo la sua morte: che avviene nel 1987, a 67 anni, per complicazioni dovute all’AIDS.

Alla storia di Liberace, il regista Steven Soderbergh ha dedicato il biopic “Dietro i candelabri“, e che fa riferimento proprio alla tormentata liaison con Thorson: e tanto di cappello a Michael Douglas per aver recitato così bene, e per aver scelto una parte così lontana dallo stereotipo del “macho” su cui ha costruito molta della sua carriera.

Perché mi ha colpito la storia di questo stravagante e egocentrico italo-polacco, al punto di parlarvene? Sicuramente non per la sua musica, distante anni luce dai miei gusti: ma per l’esemplarità della sua vicenda. Un’avventura a cavallo fra ostentazione virtuosistica, alto professionismo e kitsch sfrenato; fra moralismo (Liberace si è sempre dichiarato ferventissimo cattolico) e scelte private tutt’altro che morigerate; fra ossessione per il materialismo e attenzione per i musicisti in difficoltà; fra la cultura musicale “alta” su cui si è formato, e il costante “livellamento” ai gusti più facili del pubblico: e che incarna la  quintessenza dello show-biz e del modello culturale americano. Un modello che, personalmente, non apprezzo per nulla: ma che proprio in lui trova una delle sue espressioni più iconiche e fedeli.

E non è un caso che Rob Reiner, il regista di “Misery”, pensando a quale musicista potesse piacere alla pazzoide assassina, abbia scelto proprio lui: un personaggio schizofrenico, pacchiano, geniale e banale, angelico e diabolico, egocentrico e autoassolutorio… Di quelli, insomma, così eccessivi, vitali e ambiziosi che viene da chiederti se in soffitta non hanno un quadro che invecchia al posto loro. E infatti Annie, al letto, tiene legato uno scrittore!

4 pensieri riguardo “Liberace non deve morire

Se ti va, rispondi, mi farà piacere leggere e rispondere ad un tuo commento, grazie! :-)