La musica pop in Unione Sovietica #3 – Tre dissidenti e un bastian contrario

Buongiorno a tutti. Siamo giunti al terzo capitolo della mia breve escursione nei territori della musica in Unione Sovietica: se volete dare un’occhiata ai precedenti post, li potete trovare QUA e QUA.

Oggi parleremo di quegli artisti russi che, osteggiati dal Regime, hanno saputo portare comunque avanti la loro voce, e trovare spesso un successo – per quanto sotterraneo – tutt’altro che secondario. E, anche, di un curioso bastian-contrarioMa andiamo avanti: si parte! E vestitevi con un bel (eco)-pellicciotto: la Siberia ci aspetta.

  • Dissidente n° 1

Nato a Ekaterinoslav (odierna Ucraina) in una famiglia di intellettuali ebrei, Aleksandr Aronovic Ginzburg, in arte Aleksandr Galic (1918-’77) è il decano dei cantanti dissidenti sovietici. Autore e sceneggiatore, durante gli anni Cinquanta inizia a scontrarsi con la censura, che cancella dalla programmazione una sua nuova opera teatrale: e inizia a comporre canzoni, accompagnato dalla sua chitarra. I brani non risparmiano critiche al Partito: “Czerwone maki na Monte Cassino” (“Papaveri rossi a Monte Cassino”) racconta di un soldato polacco che, sfuggito ai lager nazisti, raggiunge i resistenti in battaglia a Monte Cassino e poi torna in patria, dove incontra nuove persecuzioni, questa volta da parte del Regime; “Molchaniye – zoloto” (“Il silenzio è d’oro”), invece, sottolinea come occorra essere “yes men” e non criticare mai il potere… Regola aurea che vale, ovviamente, anche ora! (” Dove sono ora coloro che gridarono e soffrirono? / Han rumoreggiato e sono spariti ancor giovani / Mentre i taciturni son diventati dirigenti / Perché il silenzio è d’oro“).

Tutto questo non può certo passare inosservato, nel panorama della musica in Unione Sovietica di quegli anni, tanto che nel ’74 Galic deve emigrare, prima in Norvegia, poi a Monaco di Baviera e infine a Parigi: dove trova la morte, folgorato in casa da una scarica di corrente… Incidente domestico o omicidio? Tutto è possibile, in quel mondo.

  • Dissidente n° 2

Bulat Okudzava (1924-’97), di origini miste armene e georgiane, subisce presto la perdita del padre (vittima delle “purghe” staliniane) e della madre (che passerà 18 anni nei gulag), ma nonostante tutto continua a credere nel sol dell’avvenire, e si arruola in Guerra: ma l’uomo che ne esce è profondamente diverso, amareggiato e disilluso. Diventato un letterato e poeta, ammirato e famoso, prende la chitarra in mano e si dedica alla scrittura di canzoni, fino a divenire una sorta di Brassens sovietico. Le sue soffuse “canzoni di espiazione” sono poetiche, crepuscolari e a tratti surreali: “Poslednij trollejbus” (“L’ultimo filobus”), è un triste ritratto della notte moscovita, in cui i relitti della società possono trovare scaglie di solidarietà e tepore solo al riparo dell’ultimo tram; Pesenka o bumažnom soldatike” (“Il soldatino di carta”) è invece la favola metaforica di un soldato di carta ardimentoso, così ossessionato dal furore bellico da trovare la morte in quel fuoco che tanto anela, bruciato come un foglio di quaderno. Rispetto a Galic, Okudzava  incontra meno problemi con la censura, grazie alla primaria attività di poeta e romanziere.

  • Dissidente 3

Se Okudzava presenta una poetica dolce e malinconica, e Galic un tono inconsolabile e sprezzante, con terzo dissidente incontriamo un animo decisamente “punk”: una sorta di incrocio fra Carmelo Bene, Piero Ciampi e De Andrè, senza pace e mezze misure. Vladimir Vysockij (o Vysotsky… con le grafie cirilliche è sempre un casino!), per tutti Volodja, nasce a Mosca nel 1938, sposa presto la causa della recitazione, e diventa uno dei più notevoli attori del paese: nel ’61, folgorato da Galic, inizia a scrivere canzoni “della mala”, e scopre una seconda natura. Un vero fenomeno: nessuno canta, vive e recita come Vysockij… un vulcano di creatività, energia, rabbia, fierezza popolare, poesia, sofferenza, disperazione, alcol e istinto.

Volodja è osteggiato e boicottato dal Regime, processato, escluso dalle case di edizioni musicali, impedito nell’organizzazione di concerti: ma la fama si diffonde ovunque, grazie a un’incessante trasmissione carbonara di nastri casalinghi. Nel ’69 sposa l’attrice francese di origine russa Marina Vlady, e può così ottenere il passaporto: ma non scapperà mai… Troppo è l’amore per la sua terra e la sua gente. E di amore, alcol, droga e disperazione muore, a soli 42 anni, nella natia Mosca: al funerale, una fila di 9 chilometri di persone segue il feretro.

Le sue canzoni non sono politiche in senso stretto, ma evocano un alto e fiero sentimento di umanità, di voglia di libertà e vita senza compromessi: un mood che attinge alla cultura russa e all’humus popolare in un modo tanto viscerale da risultare più pericoloso che una netta presa di pozione ideologica. La sua “Ochota Na Volkov” (“Caccia ai lupi”) è forse il testo in cui la sua poetica emerge in modo più chiaro: “Hanno accerchiato la nostra libertà con le bandierine / Ci colpiscono con certezza, sicuri di centrare il bersaglio / Ho rifiutato di ubbidire / Ho oltrepassato le bandierine – la sete di vita è più forte!  / Ho solo sentito dietro di me, con gioia, le grida di stupore degli uomini. / Sono stremato, ho i tendini a pezzi, ma oggi, non sono come ieri!

  • Il contro-dissidente

Siamo in piena Guerra Fredda: Dean Reed è un bel ragazzone americano di Denver, che tenta in tutti i modi di far carriera come cantante… Il ciuffo e la mossa pelvica ne potrebbero fare l’ennesimo clone di Elvis, ma non ha abbastanza carisma: almeno per gli States. Arrivato in Sudamerica fa invece il botto: ma, col successo, cresce la consapevolezza delle drammatiche ingiustizie sociali che tormentano i poveri di quei paese. Dean scende in campo, e sposa la causa del Partito Comunista: appoggia Allende e Arafat, va in tour in URSS e, a chiudere il cerchio, prende residenza in Germania Est. Il Partito non può credere ai suoi occhi: Reed è il veicolo propagandistico perfetto, l’americano idealista, profondamente disilluso dal modello capitalista, e che ha capito dove sta la ragione!

Gli fanno ponti d’oro: villa, passaporto, film, dischi e concerti e – grazie a canzoni ingenuamente country e pop – fama e successo, che lo trasformano in un mito della musica pop in Unione Sovietica. Ma, col tempo, la sua stella declina, mentre cresce in lui il disincanto: vorrebbe tornare in patria, e “fare il Senatore”. Un giorno prende la valigia, chiude la porta di casa, e sparisce: sarà trovato cadavere, il 31 Agosto 1986, sulla riva del lago berlinese di Zeuthen. Ha 48 anni. Si pensa di tutto: un complotto dei servizi segreti occidentali, un incidente, un omicidio politico della Stasi… E invece, come dimostreranno alcune carte, è stato “solo” un ordinario suicidio.

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Bene, per questa volta ho finito. Chi volesse, per sua cultura o curiosità, ascoltare qualcosa di questi artisti in lingua originale, troverà su Youtube tutto quanto necessario! Volendo, invece, passare agli interpreti italiani, segnalo l’opera del cantautore anarchico Alessio Lega, il cui cd “Nella Corte dell’Arbat” propone un’interpretazione fedele e poetica di alcune canzoni di Okudžava. Più semplice incontrare Vysockij: non solo ha vinto un Premio Tenco postumo, ma ha visto alcune sue canzoni riproposte da interpreti di fama, come Vinicio Capossela (“Il pugile sentimentale”), Paolo Rossi (“Ginnastica”), Eugenio Finardi (“Dal fronte non è più tornato”) e Milva (“Cavalli bradi”).

Vi saluto, e vi do appuntamento al prossimo post: che sarà l’ultimo di questa serie, e – lo prometto – un po’ meno impegnativo.

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