Buongiorno a tutti. Inizio oggi una breve serie dedicata alla storia della canzone in Unione Sovietica… E no, non perché voglia “pareggiare ideologicamente” la serie sulla musica durante il fascismo: è perché l’argomento di come le dittature temano le espressioni artistiche è sempre interessante, almeno per me, e dice molto delle piccole e grandi follie di cui è capace l’uomo; e, anche, di come lo stesso uomo riesca a sopravvivere, e a farsene beffe.
Rispetto a quanto avviene in Italia, il regime dittatoriale in Unione Sovietica investe un periodo temporale ben più ampio: da noi, una ventina d’anni; a Mosca, una settantina buona. Va da sé che, volendo rimanere nell’ambito di una chiacchierata generalista, debba cercare di asciugare un po’ il succo, senza sbrodolare troppo… Ci provo, poi mi direte come è andata, ok?
- Una questione di idee
Diversamente dalle “concorrenti” dittature fasciste e naziste, nella canzone in Unione Sovietica l’aspetto xenofobo o razziale è praticamente estraneo da qualunque discussione di opportunità espressiva: tutto si misura nel conformismo ideologico ai principi guida del Soviet. Se, secondo i censori, un genere musicale o una canzone confermano – o non mettono in discussione – le idee comuniste, bene; ma guai se provano a diffondere i perniciosi “valori borghesi e capitalisti”, o a criticare le decisioni del Cremlino! Sembra facile, no? Eppure no, non lo è per nulla!
- Il Jazz: reazionario o proletario? Qui sta il dilemma!
Prendiamo, ad esempio, il Jazz: nel corso dei 70 anni di vita dell’Unione Sovietica, si trova al centro di continue giravolte ideologiche e pratiche. Il motivo è presto detto: da un lato il jazz rappresenta la classe oppressa degli afroamericani (e quindi è un’arte “proletaria”), ma dall’altro evoca improvvisazione, spontaneità e libertà, condotte ben lontane dall’imperante precetto della pianificazione… Un bel casino, anche per i più solerti e affilati censori di Mosca!
Per i fan del ritmo sincopato tutto, all’inizio, sembra promettere bene. Nel 1922, nella Sala dell’Istituto di Arte Teatrale di Mosca, si esibisce l’orchestra del grande Valentin Parnach; nel ’26 Leopol’d Teplickij è spedito negli USA per accaparrarsi quintali di vinili e strumenti musicali, e al ritorno esegue una leggendaria jam alla fabbrica Putilov, dove presenta pezzi di George Gershwin e Irving Berlin… ma presto il vento cambia.

Nel ’28, sotto Stalin, lo scrittore Gor’kij, in un appassionato articolo sulla Pravda, definisce il jazz «un martello idiota», «il grugnito di un maiale», «un caos offensivo di suoni frenetici che conforta il mondo delle persone grasse, dei predatori». Occorre depotenziarlo e istituzionalizzarlo, istituendo l’orchestra di stato, e limitando il più possibile le esibizioni estemporanee: nei grandi hotel, ad esempio, per allietare gli alti papaveri del Partito, si possono trovare ottime jazz band, rigorosamente d’accademia. Ma altrove… mica tanto!
Negli anni ’50 la febbre del jazz cresce, grazie alle note in arrivo dalla proibita radio “Voice of America“, e ai giovani anticonformisti, gli “stilyagi“, che ricalcano le mode dei Bopper: ma i vinili americani costano uno sproposito (la metà di uno stipendio), e non è facile tirare avanti… Anche se fra gli appassionati c’è Yuri Andropov, prima capo del KGB e poi Segretario del Partito! E così la canzone Iazz in Unione Sovietica prosegue il suo cammino fino agli anni Settanta, oscillando continuamente fra divieti e permessi, recinti e fughe improvvise, ufficialità e carboneria. Una vita durissima: e, in un certo senso, paradigmatica dei controsensi che hanno agitato il socialismo reale.
- Un mercato che non c’è
In Unione Sovietica, la creazione intellettuale si trova ingabbiata nelle rigidissime regole della statalizzazione forzata della produzione: il diritto d’autore esiste solo in forma limitata, e ne possono beneficiare solo gli autori che pubblicano i loro lavori sotto l’egida del Partito. Nel 1964 nasce un’etichetta discografica di stato, la Melodija, che esercita il monopolio assoluto delle edizioni musicali, e che arriverà a distribuire sino a 200 milioni di pezzi all’anno: una vera corazzata! Nel ’72, finalmente, l’’Urss aderisce alla Convenzione universale sul diritto d’autore: ma poco cambia per le grandi star del rock a stelle e strisce, che di pubblicare le loro canzoni ante-’72 sotto la Melodija – e senza percepire un quattrino! – non ne vogliono proprio sapere. I dischi dei grandi rocker, infatti, continuano ad essere una rarità.
- Le cover band
Nasce allora un fenomeno curioso, e del tutto unico: il proliferare di cover-band da noi completamente sconosciute, ma che in URSS vendono paccate di dischi. La più famosa è quella degli Stars on 45, una band olandese alle prese con medley di cover in chiave ballabile (sic!) di classici occidentali: il loro “Long Play Album” (1981), contenente un lungo medley coverizzato dei Beatles, e cover miste degli anni Sessanta e Settanta (“Funkytown”, “Venus”, “Only the Lonely”, “Sherry”), è il disco pop più venduto in epoca sovietica.
Altra chicca è quel genere a cavallo fra elettronica, progressive, atmosfere da fantascienza e disco music, chiamato “cosmo sound“: uno stile strumentale, e quindi per natura ideologicamente neutro, e che farà piazzare ai francesi Space tantissime copie del loro “Magic Fly“, peraltro famoso anche da noi.
- Arrivano gli italiani
A fianco di francesi e olandesi fanno la loro parte – e che parte! – alcuni cantanti italiani, e un po’ per lo stesso motivo: star solo in minima parte riferibili al modello capitalistico americano, e che di politica profumano poco, o nulla. I Ricchi e Poveri, e Albano e Romina, piazzano senza fatica più album dei Rolling Stones, Gianni Morandi e Pupo spopolano ovunque, e Toto Cutugno – col suo “L’italiano” – vende oltre 800.000 copie. Ma è Adriano Celentano l’artista più venduto di sempre in Unione Sovietica: il suo “Tecadisk” (1977) è un best seller assoluto, mentre i singoli “Azzurro” e “People” vendono quasi 2 milioni di copie. Veri e propri ambasciatori del Bel Paese in Russia, anche quando la Cortina di Ferro era ancora stabile e forte.
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Oh, quante cose strane… Ma non manca qualcosa? Ok Celentano e il Jazz, pupo e le cover, il cosmo sound e i censori: ma che è del rock classico? Possibile che di Queen e Pink Floyd non vi sia traccia? Nessun disco, nemmeno di contrabbando? E nessun concerto? Nessuna band sovietica che provi a imitarli? Non preoccupatevi, di cose da dire sulla canzone in Unione Sovietica ce ne sono ancora, e parecchie: ne parleremo nella prossima puntata!
Buon giorno
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Buongiorno (in russo) a te!
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“una vera corazzata!”
oh, hai fatto il simpatico cringetto LOL
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Che NON è una cagata pazzesca
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Lol
Concordo, molto meno pesante di certi film impressionisti 😆 😆
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💯
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