Tre film #8

Buongiorno/mattino/pomeriggio/sera a tutti. Sempre “3 film“, oggi, ma con una piccola novità: questa volte le pellicole di cui vi parlo non arrivano dal cinema, da Youtube o da un dvd, ma dall’interessante e parecchio fitto catalogo del sito online “MUBI”, cui mi sono iscritto da poco più di un mese. MUBI è pubblicizzato come sito di film “d’autore”, e per quanto la definizione sappia un po’ di polvere e/o di puzza sotto il naso, non è il caso di diffidare troppo: l’offerta (a rotazione) pesca nei cataloghi di Festival passati e recenti, propone alcuni filoni a tema, o la retrospettiva di un certo autore, suggerisce alcuni classicissimi, e stuzzica l’appetito con film recenti, magari “minori”, ma sicuramente interessanti e che, magari, sugli schermi italiani sono passati di sfuggita o per nulla… I film, inoltre, sono per default proposti in lingua originale, con la possibile integrazione di sottotitoli o (se c’è) del doppiaggio italiano.

Detto questo, ecco i tre film che ho visto e che succintamente vi racconto.

  1. First Cow“: un western targato 2019 ambientato all’epoca della Corsa all’Oro (e, quindi, verso il 1850): e un western insolito, per nulla consolatorio, eroico e retorico, ma che mostra la sporcizia, il buio, i boschi e il fango in cui erano immersi quegli accampamenti pronti a diventare, nel giro di pochi decenni, delle metropoli. E che, soprattutto, ci racconta degli “ultimi”: di quei poveracci (il cuoco Cookie e il cinese King-Lu, nello specifico) che tentano di fare fortuna fabbricando buonissimi dolcetti poi venduti a caro prezzo ai rozzi cercatori d’oro, e che per riuscirci rubano il latte all’unica mucca della regione, vanto e proprietà dello spocchioso “amministratore” del villaggio… Ma non sia mai: come in “Geordie” di De Andrè, e come ne “L’albero degli zoccoli” di Olmi, la punizione per questi poveri ladri in stato di necessità sarà terribile. Anche se non ci fosse il prologo, che leva subito ogni dubbio sul loro destino, basterebbe davvero poco a immaginare la loro fine: lo scontro fra il mondo dei pionieri (violento e indifferente) e le loro due solitudini di sfigati pacifici e naïf non può che condurre lì… Non un capolavoro, beninteso: ma un bel film. Serio ma non austero, tenero ma non melenso, ironico ma non buffo: un filino troppo lungo, questo sì.
  2. Shiva Baby“: piacevole e breve commedia del 2020 che, nel rifarsi alla cultura ebraico-americana, tira dentro una valanga di argomenti e temi, alcuni anche molto scottanti. Tutto si svolge intorno a una veglia funebre di rito giudaico (“Shiva”), di cui confesso di non aver compreso tutti i sottintesi e meccanismi: compreso quello che vieta (?) di portare bambini (“Baby”) alla cerimonia. E, in mezzo, troviamo lo spaesamento della giovane protagonista Danielle, che deve affrontare le chiacchiere sulla sua bisessualità, la gelosia della ex-partner Maya, la presenza ingombrante del suo “sugar daddy” Max e della moglie (che forse capisce, forse no…), gli equivoci sul suo reale mestiere, la sua indecisione esistenziale, l’incertezza sessuale e così via, di disastro in disastro. Un po’ Woody Allen e un po’ “Funeral Party”, con una straordinaria parata di vecchie signore adorabilmente pettegole e sboccate, e di piccoli e grandi “mostri”, sui cui volti (reali o deformati) la macchina da presa indugia sadicamente: ottima la colonna sonora, minimalista-finto nipponica di Ariel Marx, e bello il volto della protagonista, la confusa e annaspante Rachel Sennott.
  3. Les parapluies de Cherbourg“: un classico francese del 1964 che vede in scena la star Catherine Deneuve e il nostro Nino Castelnuovo, per la regia dello specialista Jacques Demy, e che vinse la Palma d’Oro a Cannes. La storia è semplice, quasi banale: un amore felice interrotto dalla partenza di lui (Guy) per la Guerra d’Algeria, la lontananza, il bisogno di dare a tutti i costi un padre alla bambina che lei (Geneviève) porta in grembo, gli anni che passano, i rimpianti e l’amara constatazione che il passato non tornerà più. Ma la confezione è un colpo di genio: perché il film è sì un musical, ma del del tutto anomalo. Innanzitutto non vi sono balletti, scene di gruppo e coreografie; e, cosa ancora più strana, TUTTO il film è cantato, dall’inizio alla fine! E questo a me è piaciuto, e piaciuto assai: sarà perché – in barba alla teoria del musical – ho sempre trovato assurdo che uno, nel bel mezzo di un’azione, si metta a cantare? Almeno questo è un mondo coerente! 🙂 Si aggiunga che le canzoni sono strepitose (dell’ottimo e prolifico Michel Legrand), che la fotografia ci regala un tripudio di colori che satura ogni inquadratura, e che la trama, senza dare a vedere, richiama qui e là temi scottanti (come la Guerra, il perbenismo, i matrimoni d’interesse e la caduta delle illusioni): ed ecco spiegato perché questo film è un classico da non perdere, capace di divertire, commuovere e appassionare. Ah, bellissimi i titoli di testa!

Abbiamo parlato di:

  • First Cow” (2019, USA, 121 min)

Regia: Kelly Reichardt

Soggetto: Jonathan Raymond

Sceneggiatura: Jonathan Raymond, Kelly Reichardt

Interpreti principali: John Magaro (Otis “Cookie” Figowitz), Orion Lee (King-Lu), Scott Shepherd (The Captain)

Musiche: William Tyler

  • Shiva Baby (2020, USA-Canada, 78 min)

Regia: Emma Seligman

Soggetto e sceneggiatura: Emma Seligman

Interpreti principali: Rachel Sennott (Danielle), Molly Gordon (Maya), Danny Deferrari (Max), Fred Melamed (Joel)

Musiche: Ariel Marx

  • Les Parapluies de Cherbourg” (1964, Francia, 91 min)

Regia: Jacques Demy

Soggetto e sceneggiatura: Jacques Demy

Interpreti principali: Catherine Deneuve (Geneviève Emery), Nino Castelnuovo (Guy Foucher), Anne Vernon (madame Emery)

Fotografia: Jean Rabier

Musiche: Michel Legrand

8 pensieri riguardo “Tre film #8

      1. Sì sì, ricordi benissimo, anche se l’uso è stato poi “deviato” nel tempo…
        È successo come a “Leitmotiv”: Wagner non ha mai usato il termine “Leitmotiv”, ma altri hanno descritto le intenzioni di Wagner con quel termine, e da lì è stato così usato che ormai si pensa che “Leitmotive” li abbia proprio chiamati Wagner!

        Idem con lo “Sprechgesang”: nella prefazione del “Pierrot Lunaire”, Schoenberg non dice “Sprechgesang”, ma dice “Sprechstimme”… cioè dice “voce” e non “canto”…
        ma è finita che, nei paesi latini, il *canto* ha sempre prevalso, tanto da vederlo anche dove non c’è (e in Schoenberg certamente non ce’è): in Italia, Francia e posti così, si è attestato “Sprechgesang” per Schoenberg, mentre nei paesi anglosassoni “Sprechgesang” lo usano effettivamente per quando ancora “cantano”, cioè per Wagner, e mantengono le parole di Schoenberg (cioè “Sprechstimme”) per Schoenberg!

        Tanti hanno notato che la “voce intonatella” che usa Schoenberg nel “Pierrot Lunaire” la aveva usata, pari pari, un paio di anni prima Engelbert Humperdinck nel “Königskinder” [ma questa è pura acribia del menga: qualsiasi cosa, in musica, è già stata pensata se non da Perotino, almeno da Monteverdi o da Gesualdo nel Seicento o da Corelli o Vivaldi a inizio Settecento o da Bach nel Settecento pieno, oppure da i galanti dell’ultimo 30ennio del Settecento]

        Legrand lo usa per ragioni musicali scevre dalle filosofie, sinceramente abbastanza cerebrali pur nella loro importanza, di Schoenberg!

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