Musica ucronica: il caso “The Man in the High Castle”

Le potenze dell’Asse hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale: dopo l’atomica su Washington gli Stati Uniti si sono arresi, e ora il territorio è spartito in tre grosse aree: ad Est il Reich Americano, a Ovest gli Stati Giapponesi del Pacifico, e in mezzo la demilitarizzata Zona Neutrale. Hitler, Himmler, Mengele, Goebbels e Hirohito sono tutti vivi, e l’Unione Sovietica spazzata via: è il 1962, e gli statunitensi sono sotto il tallone di due spietate dittature. Questa, in sintesi, la trama del serial tv “The Man in the High Castle”, derivato dall’omonimo libro di Philip Dick (in Italia, “La svastica sul sole”).

Romanzo e serie si situano in quella particolare branca della narrativa fantastica denominata “ucronia“: come sarebbe il mondo se la storia non fosse andata… com’è andata! Concetto affascinante e per nulla rassicurante, soprattutto nell’ottica narrata da Dick. Ma – e qui vengo al punto – quali sarebbero state le sliding doors nel campo della musica pop? E, seconda domanda: come – e se – ne tiene conto il serial? Abbiate fede, anche se non avete visto la serie, potrete seguire il post senza problemi!

Fino al ’54, pop, country, jazz e “race music” sono categorie specifiche: intrecciate sì nella pratica, ma formalmente separate… “Canzoni bianche per bianchi, canzoni nere per neri: questo, in sintesi, il pensiero dominante: ribadito dal mercato, dalle classifiche, e dalle case discografiche. E’ solo cessato il maccartismo, consolidato il meccanismo mercantile e affermatosi il ruolo dei teenager come classe autonoma di consumatori, che la scintilla può esplodere: un guizzo chiamato “rock’n’roll” e che – con Elvis, Chuck, Jerry Lee e Haley – incendia tutto, e cambia per sempre le abitudini di ascolto e consumo.

Se i Nazi avessero vinto e conquistato gli States, avrebbe potuto nascere tutto questo? No, ovviamente: per le camicie brune, jazz e blues erano “musiche degenerate“… Immagino che, preso possesso degli Stati Uniti, Hitler e soci avrebbero spazzato via ogni espressione “colorata” (blues, jazz e gospel) o “giudaica” (Gershwin, Kern, Berlin, Rodgers & Hart, Hemmerstein: il gotha del musical, in parole povere), ma anche country e western: al loro posto, gli autori classici – Beethoven, ma soprattutto Wagner – e canzonette sentimentali e patriottiche.

Le 40 puntate del serial ospitano – oltre alla sigla, “Edelweiss“, su cui molto ci sarebbe da dire – circa 200 canzoni: alcune scritte su commissione da Dominic Lewis, e altre (la maggioranza) prelevate dalla storia della pop music. Accanto alle immancabili pagine classiche, troviamo così famosissimi brani di teen-idol bianchi che – nella nostra realtà – hanno sbancato le classifiche: Bobby Darin, Paul Anka, Neil Sedaka, il Twist, Patti Page, Doris Day, Judy Garland, Frank Sinatra, The Four Seasons, persino un acerbo Bob DylanE qui casca il primo asino: perché tutto il pop industriale dei teen-idol è anch’esso figlio (per quanto bastardo) del rock’n’roll… che non c’è mai stato. E il sefardita Neil Sedaka, e gli ebrei Benny Goodman e Zimmerman-Dylan avrebbero fatto una brutta fine, in mano ai Nazi.

Gli sceneggiatori non rinunciano certo a usare jazz e blues: e hanno l’intuizione di piazzarlo nei locali clandestini della Zona Neutrale, e nei rifugi dei rivoltosi della Black Communist Rebellion. Qui una fantomatica “Radio Resistenza” trasmette Ella Fitzgerald, Billie Holiday, Woody Guthrie, Muddy Waters, Slim Harpo, Thelonious Monk e… Elvis! Ma, di nuovo, c’è un problema: passi per i “vecchi” 78 giri pre-war, conservati e trafugati a Denver e Canon City; ma la race music dell’immediato dopoguerra da chi, dove e quando avrebbe potuto essere incisa e pubblicata? Ed Elvis, nella Memphis nazista, non avrebbe certo potuto crescere a pane e rhythm and blues: e mai avrebbe trovato un produttore in cerca di “un bianco capace di cantare come un nero”… Altro che “The Pelvis”!

Più stuzzicante il panorama canzonettaro immaginato per la zona Nippo-Americana… Anche perché il Giappone di Hirohito tutto era fuorché antisemita: e dei neri non gli poteva fregare di meno. Fra le molte canzonette pop del momento, gli sceneggiatori inseriscono una curiosità davvero intrigante: i Tokyo Serenaders (aka Club Nisei Orchestra). Una band posticcia assemblata durante gli anni Cinquanta da un imprenditore hawaiano “del nostro mondo” per dare un’illustrazione sonora “esotica” del lontano Giappone, buona per i palati americani: e che, in “The Man in the High Castle”, è invece una band di moda, e per nulla caricaturale.

Alcune cose buone, quindi, altre molto meno. Certo, non era facile immaginarsi una plausibile colonna sonora della Nazi-America 1962: gli autori hanno allora, un po’ pigramente, usato l’accetta, ribadendo la “linea del colore di pelle” allora in voga. Per la pop music, il riferimento è il canzoniere wasp del periodo, scevro di vibrazioni rock’n’roll e di chitarra elettrica; nelle zone dei ribelli, invece, ecco il jazz, il RNB e la vecchia race music, passate di contrabbando alla radio e nei club.

Un trattamento della “questione musica”, questo, che non fa che ribadire il sentiment generale che mi sta lasciando la visione della serie: un prodotto ben realizzato, ma che dipinge un mondo ucronico solo superficialmente coerente. Lo è, con molta puntualità, quando guarda agli aspetti politici della storia; mentre in quelli sociali e culturali (e, per noi, della canzone) si accontenta di sgrossare alla bell’e meglio il contesto, fra scivoloni più o meno evidenti e con tanta approssimazione.

Un guizzo c’è, a dire il vero. Ed è quando la figlia dell’Obergruppenführer Smith mette il 45 giri “I’m a King Bee” di Slim Harpo, trafugato dalla Zona Neutrale, e inizia a ballare: un atto di protesta che echeggia, in tempi e situazioni diverse, quella voglia di ribellione così importante per la nascita del rock’n’roll. Quasi a ribadire come, in qualunque linea temporale, certi stimoli e certe musiche (quella dei neri, nello specifico) avrebbero comunque potuto contribuire a scalfire i fanatismi ideologici dei nazisti… Idea affascinante, ma di cui mi permetto di dubitare.

Ma torniamo alla colonna sonora della serie, nella sua globalità. Invece di riproporre paro paro i dischi che conosciamo, sarebbe stato interessante costruire un repertorio sonoro ex novo, o quanto meno lavorare sul vecchio con un po’ di fantasia… Cosa che, in effetti, è stato fatta! Nel 2017 Danger Mouse e Sam Cohen hanno infatti realizzato la compilation “Resistance Radio: The Man in the High Castle Album“: estroso tentativo di immaginare il palinsesto della radio sovversiva in mano ai ribelli. La raccolta comprende alcuni classici degli anni ’60 già usati nella serie, questa volta eseguiti da cantanti contemporanei (Beck, Norah Jones, Angel Olsen, Sharon Van Etten): ma – wow – con le sonorità dell’epoca… Ottima idea, e operazione ultra-metanarrativa: che però nel serial non ha trovato spazio, in quanto realizzazione semi-postuma. Un vero peccato: al di là della bontà estetica delle incisioni, su cui non mi esprimo, sarebbe stato un interessantissimo esempio di… musica ucronica per un universo ucronico.

15 pensieri riguardo “Musica ucronica: il caso “The Man in the High Castle”

  1. Anch’io ho cercato di vedere la serie, essendo appassionato di fantascienza, ma alla fine ho mollato perché non mi piaceva. Bellissimo invece il tuo post che ripercorre in maniera perfettamente convincente le tue intuizioni musicali, perché in effetti hai ragione. Mi hai fatto venite in mente un discorso che mi fece anni fa il gestore di un albergo di Paestum, il quale sosteneva che se invece dei neri avessero deportato in America i napoletani, ora invece dei blues ascoltavamo le tamurriate. A volte è difficile reinterpretare il ciclo del tempo, soprattutto se questo tempo ci appartiene in maniera insondabile.“The Man in the High Castle”, probabilmente ha perso un’occasione rimanendo a metà fra l’osare e l’accontentare un certo tipo di pubblico. Ottima invece davvero l’idea che hai raccontato nel finale (!!!)

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    1. La serie risente, secondo me, di troppi switch narrativi: non ho approfondito, ma evidentemente hanno cambiato sceneggiatori in corsa. Da una prima serie, puramente ucronico-politica, improvvisamente irrompe la fantascienza; gli afroamericani, pure comparse fino alla terza serie, nella quarta diventano improvvisamente protagonisti; alcuni personaggi subiscono svolte comportamentali non molto chiare e gratuite. E’ confezionata bene, questo si.
      Interessante la provocazione del campano: anche se non so quanto verosimile, perchè la musica afroamericana ha un sacco di caratteristiche uniche, ma che per strane alchimie si intrecciano in modo perfetto con la musica eurocolta a creare un qualcosa di nuovo, sia dal punto di vista armonico che narrativo/testuale.
      E. ovviamente, grazie per i tuoi complimenti!

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      1. Si certo la sua era una provocazione, d’altronde sappiamo la verve scherzosa dei partenopei che sono molto legati alla loro terra e alla ,loro musica, esportata in tutto il mondo. Non è casuale che un mio amico jazzista, il quale spesso viene chiamato per dei concerti privati, quando li deve fare a degli ospiti americani, costoro vogliono sentire le canzoni napoletane, e non il jazz di cui sono gli ideali maestri.
        Scusa sto andando fuori tema, comunque le tue riflessioni sulla serie sono molto azzeccate, e non è poco, considerando che certe intuizioni sulla sceneggiatura potrebbero far diventare un prodotto, veramente un capolavoro.

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  2. Non ho visto la serie perché odio le serie e non sono un dickiano, ma il romanzo l’ho letto, e certo non ce lo vedevo ad “adattarsi” a una serie…

    Riflettendo, magari, a livello musicale, uno come Toru Takemitsu forse sarebbe spuntato ugualmente e forse “di più” in un eventuale mondo col Giappone vincente, e magari i suoi “influssi” sarebbero precipitati anche nella musica meno colta, creando roba, come dici tu, imprevedibile…
    Nella parte nazista, però, non si sa quanto le autorità sarebbero riuscite, alla lunga, a proibire il jazz senza che questo spuntasse in qualche modo…
    Nell’URSS vittoriosa era proibito il “formalismo” e le composizioni senza coro vittorioso finale, ma nonostante questo Prokof’ev, Chačaturjan e Šostakovič sono riusciti, pur sgomitando, a comporre ugualmente senza coro…
    Anche nel Terzo Reich, Orff riuscì a comporre “avanguardista” (con i tamburi negroidi) anche se era proibito…
    In Italia, roba come il jazz era fatta uscire dalla porta ma fatta rientrare dalla finestra nei pezzi “popolari” di Riccardo Pick-Mangiagalli o di Respighi, che comunque spopolavano…
    Perciò non si sa se, anche con la presenza di dettami e leggi artistiche, qualcosa come il “jazz” o il “rock” sarebbero davvero scomparsi in un’America nazista…
    Forse anche nell’America nazista sarebbero comunque arrivati compositori attratti, che ne so, dai canti degli schiavi, o dai gorgheggi andini: sarebbero forse nati lo stesso personaggi come Aaron Copland, Marc Blitzstein o Carlos Chávez…

    E occhio a due cose:
    LA PRIMA
    è che fascismo e nazismo, poi, nella loro follia, erano convinti di fare tanta avanguardia artistica… e roba come l’architettura razionalista, “avanguardia” è stata davvero…
    per il Festival Wagner a Bayreuth fu Hitler stesso (con Winifred, Wolfgang e Wieland Wagner e Heinz Tietjen) che rispolverò le scene astratte di Adolphe Appia, cestinate da Cosima Wagner… poi non le usò granché, perpetuando i drappeggi dipinti e gli elmi con le corna, ma le idee di Appia furono “messe a punto” da Hitler *prima* che Wolfgang e Wieland le imponessero dopo il ’45 facendo credere a tutti di essere stati antinazisti… sicché ci sta che anche certo “sperimentalismo musicale”, oltre che scenico, su Wagner, Hitler l’avrebbe comunque visto di buon grado…
    quindi chissà se poi, alla lunga, gente come Hindemith, Schoenberg o Anton Webern, se scampava dalla camera a gas, oppure ariani come Strauss o Lehár, non avrebbero trovato comunque un “modo” che, in 30 anni, sarebbe potuto rientrare in una certa “avanguardia riconosciuta” (così come ci rientrava lo sperimentalismo di Appia)…
    in fin dei conti, nel mondo reale, tutto il lavoro di Schoenberg sulla dodecafonia, arte poi considerata degenerata solo per razzismo, si origina dall’ambiguità del Tristan Akkord di Wagner: Wagner che era verbo…
    e chissà, quindi, se altri, oltre a Schoenberg (dando Schoenberg morto ad Auschwitz come altri ebrei tipo Schreker, Korngold, Zemlinsky, Berg, Ullman e tutti quanti), tra gli “avaguardisti” anche italiani (se, che ne so, uno come Alfredo Casella fosse campato oltre il 1947) o francesi (chissà come avrebbero composto Stravinskij, Poulenc, Milhaud o addirittura Varèse sotto una dittatura? non sarebbero comunque rimasti geni pur nella loro probabilissima integrazione col governo dispotico [forse solo Varèse si sarebbe suicidato come Majakovskij], come sono rimasti geni Šostakovič e Prokof’ev sotto Stalin?) sarebbero riusciti a “impastare” il *verbo Wagner* così tanto da, alla fine, giungere a qualcosa di perfino simile alla dodecafonia… [come si diceva che certi americani sarebbero riusciti, attingendo comunque al “canto popolare”, a realizzare ugualmente un “jazz” o un “rock”]…
    LA SECONDA
    è che nel romanzo di Dick l’ucronia si svela per i racconti che fanno l’i-Ching e certe spie e a noi lettori viene raccontata anche quella che dovrebbe essere la Storia (maiuscola) effettiva…
    Ma quella che i-Ching e spie raccontano non è un cavolo la Storia (maiuscola) effettiva: si intravede un «tempo» in cui Giappone e Terzo Reich hanno *perso* la WW2, ma quel «tempo» non è il tempo che è occorso nel 1945 “nostro”, perché in quel «tempo» vi si narrano attacchi, battaglie e manovre militari mai avvenute!
    perciò Dick sembra dirci che il gioco dell’ucronia non è con l’immaginarsi come sarebbe potuta andare, ma è un gioco che tratta di immaginarsi di quanto “andata” non sia affatto! Cioè che il 1945 narrato e vissuto non è “quello”, né quello ucronico né quello non ucronico, perché è tutta la realtà a essere compromessa nel paradosso quantistico (che Dick spesso narratologizza benissimo con i “precognitivi”)…
    Per cui sarebbe forse stato più interessante *non basarsi per nulla* su quanto è accaduto culturalmente nel 1945, e *inventarsi* del tutto, con forgerie varie o anche solo con stilemi rimasticati anni ’40, una musica del tutto nuova, e, perché no, del tutto a caso [poiché di Storia maiuscola, in Dick, non ce n’è per niente: e c’è anche poca, si diceva, “realtà”, visto che, a un certo punto, Juliana comincia perfino a blaterare vaniloqui senza senso, come in trance]

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    1. Che dire…troppo sapiente e informato! Chapeau👍 E no il libro non lo ho mai letto… E si anche in Italia il jazz si sentiva eccome: tanto che uno dei pianisti storici era proprio Romano Mussolini! Ma nella serie per come è dipinto il regime c’è da credere che (almeno nei primi decenni) non ci sarebbe stata storia. Grazie x la tua risposta e buone feste!

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      1. Parla della Germania che sta diventando nazista e di questo gruppo di amici amanti dei generi musicali americani. Pian piano a causa della propoganda il gruppo si sfalda fino alla fine del dramma.

        Brl film politico e storico sulla propria identità, te lo consiglio

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  3. Aggiungo anche la riflessione su un discorso tale che, nell’ucronia (che ho appena detto essere anti-realtà tout court), l’egemonia di una cultura non è granché detto che soppianti davvero la cultura sottomessa…
    Anche se le popolazioni della Dacia o di Cartagine vennero cancellate dalla faccia della terra, e con loro tutta la loro, si presume orale, cultura, gente come Longo o Luciano di Samosata o Apollodoro scrissero tranquillamente romanzi “greci” anche all’interno dell’impero romano, per esempio (così come quasi tutti i popoli delle province imperiali romane conservarono la loro religione); e le corbellerie della Volk, del Popolo e della Cultura Popolare dei nazisti forse sarebbero state “traslate”, mutatis mutandis, anche alle culture sottomesse: culture considerate inferiori ma a cui forse si sarebbe “concesso” un “interesse” per l’indagine della “tradizione”… indagine che negli Stati Uniti forse avrebbe, di nuovo, portato al jazz e al rock lo stesso…
    Ma sto sragionando…

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    1. Sono riflessioni che, per quanto puramente ipotetiche, mi catturano molto. Perchè ogni cosa è figlia del suo tempo: per dire, il rock’n’roll non è “solo” una musica, ma un complesso stratificato di canzoni, mode, consumo, oggetti… Il bacino di Elvis, la corsa in macchina di James Dean, un jukebox, le gonne a pieghe, un ballo acrobatico, il drive-in, il ciuffo con la brillantina: tutte cose che, in termini stretti, non sono il rock’n’roll… Ma che colgono il segno in un modo che nessun dizionario musicale è capace di fare. E “il nostro rock’n’roll”, come tutto ciò che è venuto dopo (anche) in sua conseguenza, British Invasion per prima, non avrebbe potuto verificarsi così come sappiamo se anche uno solo degli attori fosse stato differente. Probabilmente sarebbe capitato qualcosa di analogo: ma di uguale no di sicuro

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      1. Ovviamente lo diciamo noi adesso…
        Chiarisco: le messe polifoniche fiamminghe del Cinquecento sono analoghe ma naturalmente diverse dalle polifonie etniche del Ghana… benché, in effetti, sempre di polifonia si tratta…
        Anche la Bibbia è analoga ma diversa dai Veda e da Omero… ma sempre mito fondante una civiltà (con innegabili somiglianze) sono…
        Anche i modi strambi di Gesualdo, che nel Seicento erano scioccanti e iper-avanguardistici, sono analoghi ma diversi dal Tristan-Akkord di Wagner, che però è stato ugualmente strambo, avanguardistico e scioccante…
        Anche Apollonio Rodio, Virgilio, Claudiano e Lucano sono diversi da Pulci, Poliziano, Ariosto e Tasso, ma, visti da lontano, forse non così tanto…
        Tutto questo lo dico per essere “complementare” con quello che dici tu: è ovvio che tutto sarebbe stato diverso, ma, in ultima istanza, non sarebbe stato “umano” anche quello? E, in quanto umano, cioè appartenente a qualcosa di in qualche modo “finito”, non sarebbe forse assimilabile e simile ad altri costrutti umani… così come simili sono, magari, ziqqurat e piramidi?

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  4. Il libro di Dick è straordinario nella sua visione, ho visto il pilota della serie e forse la prima e seconda puntata, ma non mi hanno convinto e mi sono fermato. Peccato perché poteva essere bella, quando se ne parla suggerisco di leggere il libro.

    Mi vien da dire mammamia al pensiero della repressione del jazz e blues.

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