Carissimi, prima di andarmene in vacanze – ah, finalmente! – vi racconto brevemente di tre film visti in tv… Anche perché di sale aperte, a Torino, ce ne sono ancora pochissime: e meno male che il ventesimo anniversario dell’apertura del Museo Nazionale del Cinema, sarebbe dovuto esser celebrato con iniziative a tema (“Torino città del Cinema 2020”)… E chissà il TFF se ci sarà e come sarà.
Va beh, bando alle tristezze, che di rimpianti e malinconie ce ne sono già troppe, e veniamo ai film; tre titoli, dicevo, senza uno straccio di denominatore comune che non sia il mio salotto, la mia tv e l’indispensabile compagnia di Giusi.
Pronti? Si va!
- “Hollywood Party”: un classico dell’umorismo cinematografico, da più parti e fonti considerato il miglior film comico di sempre. La trama si racconta, realmente, in due righe: Hrundi V. Bakshi, un attore indiano (dell’India), che per distrazione ha appena distrutto un set, è invitato per sbaglio al party dell’inconsapevole produttore, e di gaffe in gaffe gli smonta la casa. La sceneggiatura dà modo a Blake Edwards di satireggiare sul mondo del cinema e del jet set californiano, e a Peter Sellers di spendersi in una serie di gag visive e mimiche che richiamano la commedia slapstick e la lotta con gli oggetti di Jacques Tati: e, sì, è spassoso vedere come il proverbiale granello di sabbia possa prima inceppare e poi sbriciolare dall’interno gli ingranaggi dell’alta società, oliati di perbenismo e vacuità. Un gran film, ok: ma non lo definirei “il miglior film comico di sempre” (gli preferisco, ad esempio, “Some Like It Hot” e “Young Frankenstein”). Vi sono sequenze che avrebbero potuto essere un po’ asciugate (quella con l’attore dei western, ad esempio), e altre avrebbero meritato più approfondimento: trovo inoltre che il finale (da quando entra l’elefantino, per intenderci) sia fuori tono, e interrompa con la sua cacofonia carnevalesca il lento fluire umoristico del film. Una nota di merito, ovviamente, allo strepitoso Peter Sellers (indimenticabile la gag con la scarpa, e le smorfie del “bisognino urgente” che non trova sfogo), e a Steve Franken, interprete del cameriere via via più ubriaco, e che in più occasioni ruba la scena a Sellers. Insopportabilmente insipido il canticchiare di Danielle De Metz, che ha la stessa potenza vocale di Viola Valentino, ma stupendo l’autociclo del buffo Bakshi, una “Morgan Tre Ruote” degli anni Venti. Didascalico il finale, con Bakshi che, alla faccia degli arricchiti yankee, riesce a conquistare la bella Claudine Longet. La Prima Ministra Indira Gandhi si disse orgogliosa della battuta con cui Bakshi risponde a un ospite grezzo e lascivo: “«Who do you think you are?» «In India we don’t think who we are, WE KNOW WHO WE ARE!». E mi viene il sospetto che Paolo Villaggio, per la scena della cena aziendale del rag. Fantozzi, abbia rubato più di un’idea a Blake Edwards.
- “American History X”: ovvero, come si diventa naziskin, e come se ne esce. Una storia “esemplare”, recitata da uno stratosferico Edward Norton (che, infatti, si guadagnò una nomination come migliore attore, e dovette aumentare di 14 chili la sua massa muscolare), e ben diretta (anche) in bianco e nero da Tony Kaye, principalmente noto per il suo lavoro nel campo della pubblicità e dei videoclip. Fra flashback e rallenty, scopriamo come il “bravo ragazzo” Derek abbia sposato la causa dei suprematisti bianchi, divenendone il capo, come si sia poi redento, e come ora cerchi di salvare il fratellino (Edward Furlong, il John Connor di “Terminator 2”) dai camerati: e viene un brivido a pensare che anche noi, in una situazione simile, potremmo percorrere una strada analoga. Perché, per passare dal comprensibile livore verso chi ha ferito un nostro affetto, o che rende impossibile passeggiare tranquilli nel quartiere, allo squadrismo, basta un attimo: è sufficiente abdicare al senso critico, e sposare una comoda generalizzazione. Il film, va da sé, non può che avere un sentore didattico: ma evita la retorica della redenzione vittoriosa optando per un finale durissimo e non consolatorio. Perché da certe storie, contrariamente a quel che ho scritto nella prima riga, NON se ne esce.
- “One Hour Photo”. Un (raro) film in cui Robin Williams fa una parte, se non da cattivo, quanto meno non da simpatico piacione: è già questa è una novità. La trama racconta di Sy, un addetto a un negozio per lo sviluppo rapido dei rullini fotografici di un centro commerciale: e della sua ossessione per una famiglia di clienti abituali, su cui proietta il suo desiderio di normalità… E già dalla premessa si capisce che il film non è di questi anni: il progresso tecnologico, nel giro di un paio di lustri, ha infatti condannato pellicole e nastri magnetici (che per i miei genitori erano il non plus ultra), a una rapidissima obsolescenza. Detto questo, la storia procede attraverso un flashback lungo come quasi tutto il film, in cui scopriamo come il protagonista è giunto a “fare quel che ha fatto”… E’ Sy il fulcro della storia: le sue ossessioni, il suo muoversi come un’ombra attraverso la vita, senza un affetto, uno scambio o un sorriso, prigioniero di un passato traumatico e di un presente anemico. Williams riesce, con una recitazione controllata e non manieristica, a dar vita a un personaggio che vita non sembra avere: e, come succederà nel contemporaneo “Insomnia“, dimostra di esser in grado di sfuggire ai suoi cliché, ribaltando l’abituale esuberanza da confraternita universitaria in una performance calibrata e concentrata. Ma la smania, tipicamente americana, di “spiegare tutto” appiattisce la storia su un determinismo un po’ scontato: come se l’essere umano non fosse quel groviglio imprevedibile di istinti, pulsioni, emozioni e scelte che è, ma il risultato sempre certo di un’equazione, prigioniero di un destino già scritto. E non c’entra nulla, probabilmente, ma l’angoscia ossessiva di specchiarsi in una famiglia perfetta, e la rabbia omicida verso chi perfetto non si dimostra, mi ricorda molto la follia del professor Apicella, nel sempre mitico “Bianca” di Nanni Moretti.
Abbiamo parlato di:
- “The Party” (1968, USA, 99 min)
Regia: Blake Edwards
Sceneggiatura: Blake Edwards, Tom Waldman, Frank Waldman
Interpreti principali: Peter Sellers (Hrundi V. Bakshi), Claudine Longet (Michèle Monet), Marge Champion (Rosalind Dunphy), Steve Franken (Levinson)
Musiche: Henry Mancini
- “American History X” (1998, USA, 119 min)
Regia: Tony Kaye
Sceneggiatura: David McKenna
Interpreti principali: Edward Norton (Derek Vinyard), Edward Furlong (Danny Vinyard), Stacy Keach (Cameron Alexander), Elliott Gould (Murray)
Musiche: Anne Dudley
- “One Hour Photo” (2002, USA, 96 min)
Regia: Mark Romanek
Sceneggiatura: Mark Romanek
Interpreti principali: Robin Williams (Seymour “Sy” Parrish), Connie Nilsen (Nina Yorkin), Eriq La Salle (Van Der Zee)
Musiche: Reinhold Heil, Johnny Klimek
Bello ed angosciante, One hour photo.
Io che da tempo non riuscivo più a sopportare il Williams comico ne sono stata sollevata.
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Idem Insomnia, con un Al Pacino con due occhiaie da campionato del mondo!
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Ahah, sì! 😀
(Non c’entra una fionda, ma ieri ho visto La donna della domenica su Rai Premium.
Prima o poi mi deciderò a visitare Torino!).
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Ah ma il rifacimento… Non quello con Mastroianni. Eh sì Torino merita (poi ci abito pure ma la amo a priori)
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Sì, ma arriverò anche all’originale.
Alle prossime elezioni, voterò chi promette più gianduia per tutti.
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Peccato che quest’anno il Torino Film Festival avrà parecchi problemi… Non si sa ancora nulla ma non lo vedo bene
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No, infatti.
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Ho visto One Hour Photo e non mi è dispiaciuto anche se ho trovato l’interpretazione di Robin Williams un pò sottotono, forse a causa di una sceneggiatura non proprio perfetta. Comunque, nel suo insieme, un film accettabile e sopratutto con un senso. (…Ormai difficile trovare nelle pellicole di oggi qualche senso…)
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