Trap’n’roll

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E, facendomi scudo del privilegio del festeggiato, pubblico un articolo un po’ diverso, che affronta – anche se in modo personale – una riflessione su un genere decisamente fuori dal mio target…

 

Il Trap è il rock’n’roll degli anni Dieci: voilà, l’ho detta!

E’ un’idea che può suonare assurda, lo so, ma è germogliata nella mia mente durante e dopo una settimana di vacanza in montagna con Martina: nipote di 15 anni, nemica delle passeggiate, in cerca di “campo” anche nei rifugi più isolati, insospettabile mangiatrice di pietanze altoatesine e devota auricolareggiante di Spotify craccato. Perché hai voglia, la mia compagna e io, di parlarle non dico degli Who o dei Beatles, ma di Frankie Hi-Nrg Mc, che per noi è “il rap”… Figurati: manco un cenno d’interesse. E allora scatta la frustrazione dell’adulto-che-sa-ma-che-il-giovane-non-caga, e iniziano le rampogne: “sono dei presuntuosi”, “non gliene frega nulla di niente”, “ci vorrebbero i campi di rieducazione a botte di Pink Floyd e Sex Pistols”…

Poi, quietatosi il borbottio del dogma, la coscienza critica ha iniziato a spifferami questo pensiero che non so, magari circola da tempo fra i pensatori più fini, o magari è una cazzata: in ogni caso è tutto mio! Perché, alla fine, vuoi mica che il Trap (“no zio, non è Rap, è Trap!”) sia l’alba di una nuova rivoluzione: proprio come lo fu il rock’n’roll (d’ora in avanti, RR) circa 70 anni fa? Di sicuro non negli Stati Uniti, dove il Trap (il dizionario Treccani lo tratta come un “sostantivo maschile”, e quindi mi adeguo) esiste almeno dal 2000: ma in Italia, in cui è arrivato una manciata di anni fa?

La canzone Trap parla della vita di strada, della povertà, della droga: e il tutto in prima persona, come esperienza di vita vissuta. In questo emerge la crudezza del blues, soprattutto di quello pre-war, poi passato nel RR attraverso il rhythm’n’blues: dal blues, che sublima la tensione socio-razziale con i continui ammiccamenti sessuali, passiamo al RR che, con la sua allegra esplosività ormonale, mette a soqquadro il perbenismo dell’uomo dal vestito grigio… E, da un “proibito” sempre evocato, sovente suggerito, e raramente esposto, passiamo ai giorni nostri, dove non solo si espone, ma si sbatte in faccia, senza filtri. Per un adulto medio-borghese che si destreggia fra crisi economiche e “quota 100”, è difficile credere che l’orizzonte dei ragazzi di oggi sia realmente quello dello spaccio, del sesso disperato, dei tamarri di quartiere e dei denti d’oro: lo stesso stupore degli americani del ’55, usciti dalla Depressione e dalla Guerra, verso la tenace vocazione al “fun” dei loro figli, scambiata per una mollezza caratteriale da correggere con la disciplina. Eppure, ora come allora, queste “devianze” – al netto delle inevitabili mitizzazioni adolescenziali – sono l’espressione di un disagio e di una consapevolezza: la testimonianza di uno stacco e di una differenza incolmabile fra la Generazione Z e il resto del mondo.

Come ogni linguaggio segreto, il Trap parla con codici urticanti (o incomprensibili) ai più, ma perfettamente intelligibili per gli adepti: e, da questa oscurità lessicale, la tensione verso l’indecifrabile si spinge sino a stravolgere l’emissione sonora stessa. Il “mumbling” (il borbottio del cantante) deriva da più cause (l’estetica del “pastone sonoro”, tanto cara ai trapper, lo slang, l’uso di dentature posticce), ma è soprattutto manifestazione di un rivolgersi a se stessi, di un’autarchia tutta generazionale e sociale.

E, di nuovo, mi vengono in mente i dj degli anni Cinquanta, con i loro non-sense proto-rap (“Great gugga mugga shooga booga”), il fulmineo attacco “A-wop-bop-a-loo-mop-a-lop-bam-boom!” di Little Richard, il “Be-Bop-A-Lula” di Vincent, il RR non verbale di “Woo Hoo” dei Rock-A-Teens e soprattutto “Louie Louie” dei Kingsman, dal testo incomprensibile, sporcato non da droghe o denti d’oro, ma da un più proletario “apparecchio” per i denti indossato dal cantante. Anche l’uso dell’auto-tune, che alle mie orecchie suona spersonalizzante e robotico, oltre che un mezzo un po’ paraculo per nascondere le stonature, rappresenta perfettamente il doppio binario su cui corre il Trap: da un lato la ricerca del vero-più-vero, dall’altro una manipolazione tecnologica spinta fieramente sino al limite.

Charlie Charles

Ogni trapper, oggi, si rivolge a un produttore, per trovare una cifra sonora e un look che possa far colpo, e segnare una differenza in un panorama altrimenti troppo piatto. In Italia, abbiamo dei veri e propri geni della manipolazione in studio: i vari Shablo, Charlie Charles, Sick Luke, Andry The Hitmaker, Boss Doms, Tha Supreme, Low Kidd, Chris Nolan e Big Fish sono spesso musicisti coi controcazzi, capaci di prendere un  aspirante trapper qualsiasi e portarlo in cima alle classifiche, a botte di software e trucchi al mixer. Anche qui, il parallelo coi “favolosi” anni del RR si ripropone: come non pensare a Sam Phillips, il deus ex-machina di Presley, Perkins e Lee Lewis, che col suo effetto-eco ha caratterizzato tutto il rockabilly, e che usava dire “Se vuoi fare del RR, arrivo io e te lo cavo fuori dal buco del culo”? E viene in mente anche Norman Petty, che con Buddy Holly ha segnato uno dei sound più caratteristici di ogni epoca. Altre tecnologie, altri orizzonti, altri tempi: ma alla fine siamo sempre lì, con un’ondata di talenti con tante cose da dire ma spaventosamente grezzi, e con producer curiosi e ambiziosi pronti a raccogliere la sfida, e a inventare uno stile dal nulla.

C’è poi il discorso dei canali di distribuzione. Il RR trova nel jukebox, e nel 45 giri, un media e un formato estremamente flessibili, capillari e a vocazione giovanile, capaci di forgiare un modello di consumo rivoluzionario. Passano settant’anni, e arriviamo al Trap: una canzone che le radio istituzionali faticano a digerire, che su cd e supporti fisici si vede col lanternino, ma che su Youtube e Spotify  fa veri e propri sfracelli, stravolgendo tutte le regole e le classifiche… Piattaforme che i teenager frequentano con disinvolta autorità, lontani come sono dalla liturgia dell’acquisto in negozio e dal possesso materiale: di nuovo, abbiamo la creazione e l’occupazione di uno spazio generazionale, privato, da cui l’adulto è estromesso da barriere tecnologiche e culturali. E, ora come allora, i ragazzini si qualificano come classe di consumatori autonoma e con gusti in violenta opposizione con quelli dei padri, con una paghetta in tasca sufficiente a seguire l’onda, e ad alimentare il mito dei propri idoli.

Alla fine di tutto ci siamo noi, i “vecchi”: che, proprio come i papà dei baby-boomers, non comprendono, si indignano, scuotono la testa e pensano che i loro figli di musica non capiscano nulla, e si facciano fregare da messaggi “sbagliati” e da strategie di marketing. Come se invece Presley, gli Zeppelin e gli U2 fossero eroi immacolati, e i loro fan (cioè noi) fossero sempre mossi da una chiara coscienza estetica, e non da un banale conformismo adolescenziale. Si, è vero, i Genesis “sapevano suonare”, mentre Sfera o Young Signorino (probabilmente) no: ma (e non è un caso) negli ultimi tempi alcuni trapper si sono messi in cerca di un linguaggio più caldo e vivo, collaborando con backing band di “veri” musicisti.

Nel suo programma Rai “Ossigeno”, Manuel Agnelli è tornato più volte sul concetto di come la nuova generazione stia costruendo un linguaggio su premesse totalmente autonome, senza riverenza alcuna verso il passato. É una cosa che fa male al cuore, per chi ha collezionato dischi e ha passato pomeriggi a disquisire sul tal pezzo e sul tal assolo: però così è la vita. Ed è così che si fanno le rivoluzioni: stracciando il libretto d’istruzioni e inventando nuove regole. Verrà poi il tempo in cui i giovani di adesso inizieranno a incuriosirsi, a spulciare fra i cd dei padri, ad ascoltare qualcosa di “vecchio” e a fare un po’ di sana contaminazione: e, come dal RR si è passati al Rock, dal Trap si arriverà a qualcosa di più complesso e sfaccettato, e a una nuova era. Chissà.

Ma ora, Martina, tu e tuoi amici, godetevi il presente: mandate pure affanculo me, e quelli come me, se vi rompono le scatole perché ascoltiate “la vera musica”. Questa non è la mia musica ma la vostra, del vostro tempo e della vostra gioventù: godetevela. Fino all’ultimo “Mmh Ha Ha Ha“.

13 pensieri riguardo “Trap’n’roll

  1. Ti disturbo da esperto…
    Da Zoro («Propaganda Live»), Jovanotti disse che anche per lui, per il suo “rap” (all’acqua di rose, ma allora, in Italia, si pensava a lui, e lui si pensava, come “rap”), contava molto il «passato» (rock, country, r&b ecc.)… e diceva che si stupiva che, invece, il trap avesse così tanto disprezzo e disinteresse per il passato, e che si presentasse come un genere di «tabula rasa» fiero, quasi, della sua ignoranza…
    E questo atteggiamento di “annullamento” del passato è riscontrabile in altri contesti, nella storia? per esempio nel rap o nel punk?
    Cioè: ai “trap” proprio non gliene frega niente di chi era, e cosa ha fatto, Otis Redding… invece a, che ne so, ai Clash, gliene fregava di quel che avevano fatto i Beatles?

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    1. Mah, esperto… appassionato sì, sull’esperto ci sto lavorando 😊
      Domanda interessante la tua: e di difficile soluzione. Beh, diciamo che il mito di una musica “originale” è, appunto, un mito. A partire dal banjo, “Il primo strumento americano di pelle bianca”, che invece ha origini africane, sino ai Black Crowes, che (parlo dell’epoca del primo disco) dichiaravano di non aver mai ascoltato i Rolling Stones. Alla fine tutto ci entra nella pelle, nelle orecchie e nella coscienza: un po’ come il fatto che noi europei siamo greci, ebrei e cristiani… Volenti o nolenti, consapevoli o no, allineati o oppositori. I Clash si sono per certo abbeverati alla storia del rock, i Beatles erano esperti di musica black, i Led Zeppelin di blues post e pre-war: mentre i trapper dichiarano di non conoscere nulla. Sarà vero? Al netto delle boutade, può essere che alcuni trapper siano davvero ignoranti in materia: e molti ragazzini pure. Anche perché la tecnologia (e, dietro essa, le piattaforme e chi le governa) hanno buon gioco a creare una classe di consumatori a se stante, e fieramente isolata. Per i producer penso che il discorso sia differente, se non altro per una questione di professione. Il futuro è tutto da inventare: ma nulla potrà perdersi per sempre, e in modi magari che non immaginiamo la storia continuerà a riemergere anche nei generi più dichiaratamente ostili al passato. Per ora sarei contento che la nipote cagasse almeno un po’ Frankie Hi-Nrg: sarebbe un primo passo…

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    2. Mi intrometto solo per dire che sì: almeno al rap gliene fregava.
      Che poi dalle influenze soul ecc. si sia evoluto verso altri sound, è un discorso collaterale.
      Cfr., volendo, Il rap spiegato ai bianchi di Foster Wallace e Costello (non Elvis).

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      1. Si. Il mio discorso era, ma non solo, una piccola provocazione con un fondo di verità. Musicalmente è pressoché impossibile essere completamente vergini, qualcosa nelle orecchie che ci piaccia o meno passa sempre e si deposita nella memoria. Diversa è la pretesa di considerarsi un qualcosa di avulso da tutto… Dove poi si incontra anche la sbruffonaggine e un po’ di santa ignoranza!

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      2. Per altro io concordo anche con la tua ipotesi, e ti chiedo venia ma… il like proprio non ce l’ho fatta a metterlo, perché mi fa talmente schifo la trap (io la penso al femminile: la -musica- trap) che mi sanguinavano le dita XD
        Dando per scontato che nulla nasce da nulla, è sempre bello avere un riferimento di massima.

        (Prima o poi arriverò anche alla mail: abbi fede).

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