L’ultima luna: #2 – Luna piena

La luna è piena… e non sappiamo chi l’ha messa in questo stato

La fase di plenilunio è tradizionalmente associata alla creatività e al suo lato esoterico, la magia; su questo punto hanno speculato moltissimi racconti e film horror, che hanno sfruttato la luna piena (e i sudditi licantropi) come ambientazione dei loro climax.

Ma c’è un’altra luna piena che ha colonizzato così tanto la narrativa, la poesia e la canzone da diventare un archetipo: quella che sorveglia benevola i baci degli innamorati, e quella che accompagna la solitudine di chi innamorato è, ma senza qualcuno da amare. La famosissima “Blue Moon” è forse la più famosa delle canzoni d’amore intitolate al latteo satellite: e dire che la prima versione del pezzo, scritta dalla celebre coppia Richard Rodgers e Lorenz Hart per il film “Hollywood Party” (1934), aveva incontrato lo stesso destino della sequenza con Jean Harlow… E, cioè, era stata tagliata. Hart, tenendo duro, aveva riscritto i versi e proposto la canzone per la pellicola “Manhattan Melodrama”… Ma, di nuovo, aveva incontrato l’accetta dei produttori. Per fortuna si decide di girare una nuova scena: Rodgers, che crede nel pezzo, cambia le parole e nasce “The Bad in Every Man”, cantata in un nightclub da Shirley Ross. Un bellissimo lento, malinconico e commovente. Il pezzo ha un indubbio potenziale commerciale, ma secondo tutti occorre un nuovo testo (e siamo al quarto…), meno esistenziale e più romantico: Hart guarda il cielo, ed ecco che…

“Blue moon, you saw me standing alone, without a dream in my heart, without a love of my own”

Finalmente, il 15 Gennaio 1935, esce il 78 giri “Blue Moon”, per la Brunswich Records: Connee Boswell ne è l’interprete, ma il successo internazionale arriva solo  a cavallo fra gli anni Quaranta e Cinquanta, con le versioni quasi contemporanee di Billy Eckstine e Mel Tormé, che ripetono il mood della Boswell. La grande Billie Holiday ci regala la lettura più jazzy e raffinata, ma è il quintetto The Marcels a trasformare la dolente melodia in un nonsense doowop al limite del buffonesco (con la sua introduzione zeppa di onomatopee e allitterazioni) e a vendere paccate di dischi.

Detto che preferisco l’interpretazione più soft e riflessiva, di cui vi sono innumerevoli cover (ricordo quella in salsa country dei Mavericks, usata nel film “Apollo 13”), se proprio devo cedere alla comicità tanto vale fare gli autarchici: e mi aggrappo a pochi e pallidi ricordi d’infanzia evocando la versione dei torinesi Brutos, gli antesignani della canzone demenziale italiana, e che – nella loro “Luna malinconica” – proprio ai Marcels fanno il verso.

Di bacio in bacio, di nostalgia in nostalgia, passiamo alla regina della canzoni da ballare guancia a guancia, magari proprio sotto una luna piena: lo strumentale “Moonlight Serenade“. Un capolavoro di orchestrazione, il pezzo che forse definisce meglio di tutti il Glenn Miller sound:  il clarino – appena sopra il sax tenore – dispone le sua languida linea melodica, mentre i fiati di supporto sembra non “respirino” mai, e debbano arrestarsi solo a contatto con l’infinito.

Il singolo, pubblicato nel 1939 (e di cui “Moonlight Serenade” è solo la B side!) riscuote un successo fenomenale, in patria come in Europa, e subito se ne appronta anche una versione cantata, col testo di Mitchell Parish:

“So don’t let me wait, come to me tenderly in the June night, I stand at your gate and I sing you a song in the moonlight, a love song, my darling, a moonlight serenade”

Una tale fortuna commerciale, e un così perfetto connubio fra melodia, sound ed evocazioni emotive (roba da riflesso Pavlov), generano immediatamente decine di imitazioni, alcune cantate (Frank Sinatra, ovviamente) e altre solamente strumentali… Ma io preferisco, sempre e comunque, l’originale: che peraltro, nel ’91, è stata premiata col Grammy Hall of Fame Award.

E arriviamo ai giorni nostri (si fa per dire…), e cioè nel 92 quando un Neil Young, reduce da una delle turnè più rumorose e cazzute di sempre (e che germina lo strepitoso live “Weld”), distrutto dalla fatica e da un fastidioso acufene, si prende una pausa, stacca il jack, imbraccia la chitarra acustica e, a vent’anni esatti di distanza, appronta una sorta di “reboot” del suo capolavoro pastorale del ’72, “Harvest”. Il risultato è “Harvest Moon“: un lavoro solo parzialmente all’altezza delle aspettative, ma che ha nella title track il suo masterpiece.

Di per sé la canzone non sembra nulla di che: un giro di chitarra elementare, il pulito accompagnamento degli Stray Gators, essenziali arrangiamenti country  (una lap steel guitar, il coro di Linda Rostandt), una melodia orecchiabile, e un testo liscio liscio:

“And the moon is climbin’ high I want to celebrate, see it shinin’ in your eye. Because I’m still in love with you, I want to see you dance again on this harvest moon”

Ma è la somma che fa il totale: ed è un totale commovente, dove l’evidente smanceria zuccherina delle singole parti si combina in un qualcosa di magico. Ci porta in quel posto dove, al riparo del nostro orgoglio, non ci vergogniamo di dire alla persona che amiamo che… sì, l’amiamo: semplicemente. E che vogliamo ballare con lei sotto la luna, per tutto il tempo che ci sarà concesso.

Quella di Neil è la “Harvest Moon”, la luna del raccolto: uno dei tanti nomi con cui il gergo nordamericano indica le varie lune piene dell’anno, e che in questo caso denota il plenilunio dell’equinozio di settembre, che con la sua luce permette ai contadini di continuare la mietitura nelle ore più fresche, durante la notte. Il mese dopo, a ottobre, è tempo della luna del cacciatore: luminosa e durevole, la Hunter’s Moon consente ai cacciatori di individuare le prede anche al buio, nei campi lasciati nudi dopo il raccolto. Ed è proprio alla Luna del Cacciatore che si ispirano i Thin White Rope (uno dei gruppi più underrated della storia) per la loro “Hunter’s Moon“.

Sopra un denso muro di suono, di distorsioni e di feedback, e un quattro quarti implacabile, Guy Kyser e soci dispongono un testo al limite dell’ermetico:

Sticks and rivers lead to you, rock and mountains turning blue, in the light of the hunter’s moon.

Going to find my way to you with the help of the hunter’s moon

Parole che potrebbero essere declamate da un pastore protestante del Settecento, da un Pellerossa, da un licantropo, da un innamorato o da un serial killer, e che il registro vocale cupo, profondo e tremante di Kyser trasforma in rumore fra i rumori… Un quadro allucinato e  devastante, dove il senso compiuto si sfalda, sommerso dai decibel e illuminato da una luna arcana e misteriosa. E, ovviamente, piena.

 

  • Abbiamo parlato di:

    Connee Boswell – “Blue Moon” (Richard Rodgers, Lorenz Hart) – Tratto dal 78 giri “Blue Moon” (1935, Brunswich Records)

    Glenn Miller – “Moonlight Serenade” (Glenn Miller) – Tratto dal 78 giri “Sunrise Serenade” (1939, Bluebird Records)

    Neil Young – “Harvest Moon” (Neil Young) – Tratto dall’album “Harvest Moon” (1992, Reprise Records)

    Thin White Rope – “Hunter’s Moon” (Guy Kyser) – Tratto dall’album “The Ruby Sea” (1991, Frontier/RCA)

     

    Se sei interessato al tema “Cinema & Luna”, dai un’occhiata al blog degli amici de L’Ultimo Spettacolo, nella sezione “Fly Me to the Moon”!

    Il nostro viaggio fra canzoni e fasi lunari, invece, continua nella prossima puntata.

9 pensieri riguardo “L’ultima luna: #2 – Luna piena

  1. Blue Moon + Moonlight Serenade, wow…
    la prima mi piace in tutte le sue varianti… questa dei Brutos “italianizzata” non la conoscevo, ma è forte anch’essa… poi, almeno per quanto mi riguarda, la versione dei Marcels è memorabile anche per il fatto di far parte della colonna sonora di quel cult che è Un lupo mannaro americano a Londra…
    quanto a Moonlight Serenade ne conosco la genesi grazie all’ultimo TFF, ove han proiettato The Glenn Miller Story, come sai… gran pezzo, non c’è che dire…

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    1. Il gran pezzo di Neil Young, invece, è abbinato a un videoclip che non riesco ancora ben a decifrare: se lo spirito che lo anima è serio, allora non ci siamo, se invece è volutamente ironico, per alleggerire un po’ lo zucchero del testo, ok. Propendo per la seconda ipotesi, anche per la stima che ho verso il canadese Neil e per la semplice bellezza della canzone.

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  2. “Blue Moon” lo associo, ovviamente, a «An American Werewolf in London» — “Harvest Moon” adoro la versione di Cassandra Wilson di «My Blueberry Night» — “Moonlight Serenade” è un classico…

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    1. Eh sì di canzoni lunari ce ne sarebbero a decine, da quella del capellone Angelo a “Fly Me to the Moon” da “Moondance” a “Luna” di Togni ecc ecc… Grazie cmq per il suggerimento se nn ricordo male fu proprio un disco di Branduardi il primo che visitó casa mia, 40 anni fa.

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      1. Vado subito a vedere! Grazie.
        Sì, quasi sempre una storia di fede (o non fede) è complessa.
        Dobbiamo poterci esprimere sugli “esiti” che ha dato in una persona, se quella decide di parlarne, ma va anche ricordato che quell’esito – pensieri, parole, opere – non è che una percentuale di tutto il “viaggio”.
        Torna a trovarmi / leggermi quando vuoi 😉

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