Bob’s in the basement: un’elegia in biondo e rosa

Quando, al Festival di Newport del ’65, Bob Dylan propone un rumoroso set elettrico, si consuma il più grande dei tradimenti: il menestrello dei diritti civili, l’erede di Woody Guthrie e Pete Seeger ha rinnegato la tradizione folk, simbolo di purezza, progressismo e lotte, in cambio di dollari e fama. Lo scandalo suscita reazioni veementi, ma non dura che lo spazio di qualche mese: a fine anno il folk-rock sta contagiando tutti, convincendoli della più elementare delle verità… Che la musica è questione di spirito e atteggiamento, non di strumentazione: accostare chitarra elettrica e tradizione – almeno negli Stati Uniti – indigna sempre meno gente.

La frontiera si è spostata più in là: ma fino a dove potrà spingersi? Ancora una volta è Dylan a scompigliare le carte: è l’autunno del 1965, Bob vuole lavorare sul prossimo disco, ma né Paul Butterfield né Al Kooper saranno con lui. I sostituti sono individuati in The Hawks, una band canadese che ha fatto da spalla al musicista rockabilly Ronnie Hawkins, e che ha accompagnato John Hammond Jr nel suo sperimentale “So Many Roads”. Nella line-up troviamo Rick Danko (1942-‘99, basso, violino e voce), il meticcio nativo-americano Robbie Robertson (1943, chitarra e voce), il pianista e armonicista Richard Manuel (1943-‘86), il polistrumentista Garth Hudson (1937) e il batterista e cantante Levon Helm (1940-2012, l’unico americano della brigata).

Il 5 Ottobre Dylan e gli Hawks si chiudono negli studi newyorkesi della Columbia e iniziano a provare: quasi quattro mesi, interrotti da una tournée di tre settimane, non partoriscono che la miseria di quattro pezzi. Per uscire dall’impasse, il produttore suggerisce a sorpresa di spostarsi a Nashville, il tempio del country istituzionale. A Febbraio Dylan, gli Hawks e il redivivo Al Kooper arrivano a Music Row: Bob fa smantellare le barriere isolanti dello studio, recluta i musicisti country Charlie McCoy (chitarra, basso e armonica) e Joe South (basso e chitarra), e si mette al lavoro. Ora, chissà perché, tutto gira a mille: poche settimane, ed è pronto il nuovo disco, “Blonde on Blonde”.

Dylan riprende lo schema di “Desolation Row” e lo eleva a sistema: lunghi brani che rinascono in continuazione dalle proprie ceneri, e sembrano non aver mai fine. I testi abbandonano il registro retorico e polemico, e si distendono in struggenti, tenere e malinconiche dichiarazioni d’amore. A canzoni appartenenti al corteggiamento elegiaco (“I Want You” e “Absolutely Sweet Marie”) si accompagnano – e qui sta la grandezza e l’originalità del disco – la goliardia da Esercito della Salvezza (“Rainy Day Women #12 & 35”), la visionarietà psichedelica della maestosa “Visions of Johanna” e della solenne “Sad Eyed Lady of the Lowlands”, il lamentoso “Temporary Like Achilles” e i blues di “Pledging my Time” e “Leopard-skin Pill-box Hat”… Per dirla con Dylan, “un suono sottile, mercuriale e selvaggio. Metallico e lucente, con tutto ciò che evocano queste parole” [1].

“Blonde on Blonde” (Maggio 1966) segna un limite di demarcazione netto, separa l’epoca del dilettantismo per vocazione da quella dell’arte consapevole: e, per quanto riguarda il nostro discorso, l’avvio di un nuovo piccolo scandalo. In un disco così eclettico e colorato, la presenza dei session men di Nashville – simbolo della musica e della reazione conservatrice – passa quasi inosservata dai più: ma la storia sta imboccando una delle sue molte svolte.

Il 29 Luglio 1966 Dylan è vittima di un incidente motociclistico: nessuno sa, ancora oggi, quali siano state le reali circostanze, e quali le conseguenze… Fatto sta che per un anno sparisce letteralmente dalla circolazione. Forse l’esito del trauma è davvero importante; forse non lo è, e Bob approfitta della situazione per allontanarsi dal caos degli ultimi mesi, riprendere il controllo, e pensare a cosa fare da grande. “Deve esserci un altro stile di vita per una pop star in cui lei è al comando, non loro”: e, una notte, l’illuminazione. “La svolta decisiva fu ritornare a Woodstock. Stavo senza far niente sotto la luna piena, guardai nel bosco tetro e dissi: “Qualcosa deve cambiare”.”

Danko, Manuel, Hudson e Robertson – i quattro quinti degli Hawks – fra Marzo e Giugno del ’67 raggiungono Dylan a West Saugerties, New York, in una grande casa di campagna pitturata di rosa: nella cantina della “Big Pink”, in un’atmosfera informale e cameratesca, in compagnia di due mixer, un registratore e un set di microfoni, i nostri iniziano a suonicchiare e mettere su nastro qualche canzone. “Bob tirava fuori una vecchia ballata e si preparava su quella. Faceva pratica e poi veniva a suonarcela. Tutta la faccenda folk per noi era ancora in discussione, non era il treno su cui siamo arrivati… Quello era veramente un modo di registrare tranquillo e rilassato: con la finestra aperta, e un cane che gironzolava sul pavimento”.

Le cronache parlano di sette, dieci, anche quindici tracce al giorno: “Alcune erano vecchie ballate e canzoni tradizionali, ma altre volte Bob portava altro… Veniva giù in cantina con un foglio scritto a macchina e diceva: “Avete una musica per questo?” Noi suonavamo la melodia, lui cantava qualche parola che aveva scritto, e poi aggiungeva altro, oppure solo suoni fatti con bocca e sillabe”. In pochi mesi, si arriva a un nastro con trenta brani: fra questi, “Quinn the Eskimo (The Mighty Quinn)”, “Million Dollar Bash”, “You Ain’t Goin’ Nowhere”, “Going to Acapulco”, “I’m not There”, “Apple Suckling Tree” e le celeberrime “This Wheel’s on Fire” e “Tears of Rage”, scritte a quattro mani con gli Hawks.

Queste canzoni casarecce, registrate “per ammazzare il tempo”, arrivano  sottobanco ad alcuni colleghi, e sono subito incise. “Too Much Nothing” è portata in classifica da Peter, Paul and Mary alla fine del ’67, Manfred Mann dà voce a “Mighty Quinn”, i Byrds adottano “You Ain’t Goin’ Nowhere”… E tutto ciò senza che nessuno dei nastri originali abbia ancora avuto l’onore di una pubblicazione ufficiale.

Nell’ambiente iniziano a serpeggiare voci incontrollate: si favoleggia di un’enorme mole di acetati, e  il Rolling Stone Magazine, in prima pagina, chiede a gran voce la pubblicazione del materiale inedito. Quattordici canzoni, registrate sotto il logo privato della dylaniana “Dwarf Music”, iniziano a circolare in collezioni private, e diventano materiale per molti dischi “illegali”, il primo dei quali – “The Great White Wonder”, il primo bootleg della storia – è rilasciato nel Luglio del 1969. Una selezione ufficiale di ventiquattro brani [2] delle “registrazioni della cantina” – “The Basement Tapes” (Columbia) – arriverà nei negozi solo nel 1975: epoca in cui il sound delle origini è già stato scoperchiato, studiato e spolpato sino all’osso.

Torniamo però al 1967, e per la precisione a Dicembre: nessuno sa cosa realmente sia successo durante il forzato esilio di Dylan, e tutti sono in trepida attesa del suo nuovo disco, annunciato per il 27 del mese, certi di trovare ancora le chitarra elettriche, le lunghe suite e gli arrangiamenti lussureggianti di “Blonde on Blonde”… Ma Bob, con “John Wesley Harding”,  spariglia le carte: canzoni semplici, scarne ed essenziali, interpretate con una voce calma, riposata e austera, che non ha più nulla delle nevrosi esistenziali e della rabbia iconoclasta di “Bringing It All Back Home”.

Dylan, incurante delle dilatate e indianeggianti divagazioni lisergiche dei suoi contemporanei, lancia la moda della catarsi spirituale e del ritorno alle tradizioni: memorie che risiedono nei valori religiosi dei padri (la Bibbia) e nell’espressione musicale per eccellenza della civiltà rurale (il folk-country). La purificazione si compie attraverso l’allegoria apocalittica di “All Along the Watchtower” e l’amara metafora biblica di “The Ballad of Frankie Lee and Judas Priest”: con lui, il fior fiore dei musicisti di Nashville.

Il successivo “Nashville Skyline” (1969) porta – fin dal titolo – la scelta sino alle estreme conseguenze: canzoni bucoliche (“Country Pie”, “Lay Lady Lay”), e orecchiabili, una schiera di session men country di primissima fila, e in copertina un Dylan pacificato e sorridente. E The Hawks, nel frattempo, hanno cambiato nome nel più noto The Band, e hanno debuttato con l’album “Music from Big Pink“, che proprio all’esperienza con Dylan fa riferimento… Ma questa è un’altra storia.

 

 

 

[1] L’incisione di “Sad Eyed Lady of the Lowlands” è un piccolo esempio di crudeltà applicata. Dylan non porta spartiti alla session, ma avvisa i musicisti che suonerà una strofa, un ritornello e un intermezzo e poi ripeterà il tutto: loro devono solo andargli dietro… Ma la registrazione va avanti sino al dodicesimo minuto, ben oltre la durata canonica, costringendo la band a improvvisare, e ad aumentare ogni volta di intensità in vista della conclusione, che sembra non arrivare mai. Ecco come si arriva al “sound mercuriale e selvaggio”…
[2] Nel 2014 sarà pubblicata la versione integrale dei “Basement Tapes”, con 139 tracce, prove e alternate takes.

 

Articolo tratto da “Il Grande Viaggio” – Vol. 2- Parte Decima

…Coming soon!

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